Questa intervista a Gabriella Pescucci è pubblicata nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, in cui i protagonisti del mondo dello spettacolo romano raccontano la loro Roma e i loro luoghi del cuore.
Parigi durante la Rivoluzione Francese, parrucche, cerchi, busti e rasi, New York nell’Ottocento, crinoline, diademi, boccoli e strascichi, l’Impero Romano con le sue toghe. Gabriella Pescucci, costumista: 80 anni e un viaggio, appeso alle grucce, tra i secoli e le favole. “Parlo poco”, dice con gli occhi vispi. Nel 1994 ha vinto l’Oscar per i costumi de L’età dell’Innocenza di Martin Scorsese, ma era stata candidata prima, con Le avventure del barone di Munchausen (1988) di Terry Gilliam, e poi, con La fabbrica di cioccolato (2005) di Tim Burton.
Gabriella Pescucci si sente al suo posto nella sede della Tirelli Costumi, nel villino liberty nel centro di Roma. “Insieme a Umberto Tirelli andavamo a caccia di abiti e tessuti tra mercati e mercerie, compravamo di tutto”, ricorda con nostalgia: “Vedo questo artigianato che scompare”. Lei non smette di lavorare: gli ultimi progetti sono stati la serie tv Domina di Sky (2021) e The Decameron di Netflix, per cui è prevista l’uscita nel 2024. “Arrivai a Roma a 26 anni, da Firenze, volevo lavorare col grande Piero Tosi”. Uno spillo è sul tavolo, davanti a lei. “Preferisco esprimermi disegnando”.
Com’è stato il passaggio da Firenze a Roma?
Roma era una città molto più facile rispetto a oggi. Venni con una lettera di referenze dal mio professore di disegno a Firenze, per Piero Tosi. Ma mi sembrava troppo. Gliela feci leggere solo molti anni dopo. Ho cominciato ad andare in giro con la mia cartella da disegno.
Il primo lavoro?
Medea di Pasolini. Ero l’ultima assistente di Tosi.
Pasolini com’era?
Un genio. Non facile. Molto sulle sue, dava sempre del Lei a tutti.
E la Roma di quegli anni?
Magnifica. Con Umberto Tirelli, il fondatore della sartoria, giravamo per mercerie e mercati. Lui comprava di tutto, bottoni, tessuti, nastrini. Fu saggio: quando morì lasciò l’attività, compreso il villino liberty, a Dino Trappetti, un suo amico, che faceva l’ufficio stampa nel cinema, anche per Sergio Leone. Altrimenti la sua famiglia avrebbe venduto tutto.
È qui in questo villino che ha cucito i costumi con cui ha vinto l’Oscar nel 1994 per L’età dell’innocenza di Martin Scorsese?
Sì, quel film l’ho fatto tutto qui. Per l’abito indossato da Michelle Pfeiffer ci ho messo due settimane. In quegli anni lavorare nel villino era bellissimo. Barbara Mastroianni, anche lei costumista, abitava qui, al piano di sopra, e ci è rimasta per tutta la vita. Il villino lo fece costruire il padre di Flora Carabella, la moglie di Marcello Mastroianni. E ci venne la figlia Barbara che voleva emanciparsi dai genitori e lasciare la loro villa sull’Appia Antica. Alla fine, se li ritrovò entrambi qui.
La sua notte degli Oscar com’è stata?
Ero molto felice, sono orgogliosa di questo riconoscimento. Non sono una persona modesta, lo ammetto, ma non mi vanto delle cose.
Quindi arrivò a Roma con le idee molto chiare?
Sì, ho sempre saputo che cosa volevo fare. Lo sapevo fin da molto piccola. Sono una fortunata. E non mi stanco, ho i miei anni ma lavoro ancora.
L’ultimo progetto cui ha lavorato?
Il Decameron per Netflix. Dopo Domina, prima e seconda stagione.
Da dove si comincia per disegnare un abito?
Leggendo la sceneggiatura e parlando con la regia si cerca di capire i personaggi. Il mio lavoro, alla fine, è aiutare l’attore a entrare nel personaggio. Con gli attori spesso il rapporto non è facile. Magari nella sceneggiatura c’è scritto che l’attrice deve essere brutta e lei invece vuole apparire bella. Il costumista è anche un lavoro di dialogo e mediazione. Anche se a me non piace molto parlare.
Perché?
Perché faccio. Si parla troppo e si fa poco.
Lavora in silenzio?
No, parlo con le altre sarte, devo coordinare il lavoro nel laboratorio. Però preferisco spiegarmi disegnando.
E come si lavora oggi nei laboratori dei costumi?
Tempi stretti e sempre meno denari. Quindi devi essere molto ben organizzata. E le serie televisive sono più difficili rispetto ai film, proprio perché mentre girano il primo e il secondo episodio, già si lavorano i costumi per il quinto e il sesto.
Il mestiere com’è cambiato in questi anni?
Noi italiani abbiamo una grande manualità creativa. Ma questo artigianato sta scomparendo. È molto grave. Non si impara mica sui libri l’artigianato, non si può recuperare se si perde. Cucire è una manualità bellissima, è anche molto difficile. Adesso a volte vedo arrivare le comparse che non sanno neanche farsi un fiocco alle scarpe o attaccare un bottone. E poi oggi è molto più difficile trovare i tessuti, in Italia mancano le stoffe.
C’è qualcuno che ha visto trasformarsi indossando un vestito?
Tutti. Succede spesso. Innanzitutto, gli attori in C’era una volta in America. Ho amato lavorare con Sergio Leone, era burbero ma di grande intelligenza.
Ha mai avuto episodi spiacevoli con qualche regista?
Sì, certo. Ma le cose negative le cancello e non le racconto. Cerco di non portare rancore. Il rancore fa male. Fa venire le rughe.
E ora che cosa guarda?
Vado molto al cinema. Perché andare al cinema è un po’ come sentire la musica al concerto. Non ci si può distrarre. Ho appena visto l’ultimo film di Matteo Garrone, Io capitano, bellissimo e straziante.
Preferisce lavorare a un film in costume o contemporaneo?
In costume. Perché fare shopping nei negozi normali mi annoia a morte. Per restituire le epoche invece bisogna leggere, studiare. Amo gli aneddoti, spiegano le epoche.
Il suo preferito?
So che fuori dall’ufficio di Coco Chanel c’era una frase: “La creatività non è democratica”. Nel senso che, se fai un lavoro creativo, in cui si produce qualcosa, non ti devi lasciare distrarre da nient’altro.
Che cosa prova lei quando fa un costume?
Felicità. È come costruire una casa: si comincia dalle fondamenta. Quando poi la sceneggiatura mi piace sono ancora più felice.
E se non le piace la sceneggiatura l’abito viene bene lo stesso?
Faccio sempre del mio meglio.
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