Si contano sulle dita di una mano gli aspetti della vita quotidiana che oggi che non siano interessati dall’avanzare dell’Intelligenza artificiale. Il cinema è arrivato primo a raccontare la nascita di “programmi senzienti”, come HAL9000 di 2001 Odissea nello Spazio (1968), un computer che interagisce con l’equipaggio della nave Discovery fino a diventare il loro incubo. Certo, Stanley Kubrick tratteggia un racconto futuristico, fantascientifico, ma semina anche piccoli indizi capaci di riportarci sul piano del reale e del possibile: basta sostituire le tre lettere del nome del super-computer con quelle successive in ordine alfabetico per ottenere la sigla di una delle più importanti aziende di informatica, IBM, se non la più importante a quei tempi.
Oggi l’intelligenza artificiale (non senziente) è diventata una realtà. Sono molteplici i programmi in grado di comporre testi, anche complessi, come ChatGPT, o creare immagini partendo dalla descrizione dell’utente, generando anche paura e malcontento tra i lavoratori del settore.
Ma se da un lato si scende in piazza, si discute e si scavano le trincee per difendere la creatività umana, minacciata da “l’algoritmo”, dall’altra c’è chi si chiede fino a che punto possono arrivare questi programmi. Può un’intelligenza artificiale diventare un artista? È la domanda cui ha cercato di rispondere anche Bennett Miller, regista di fama internazionale (Moneyball, Truman Capote, Foxcatchers), che con la sua mostra alla Gagosian Gallery di New York ha presentato immagini di luoghi e soggetti inesistenti generati da un software di nome DALL-E.
Immagini malinconiche, a volte inquietanti, ma originali. Basta questo a definirle “arte”? Certamente, riguardandole, appese alle pareti di una delle gallerie più importanti del mondo, almeno il dubbio sorge spontaneo.
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