Amministratore delegato di Panorama Films S.r.l. – società di servizi per le produzioni, fondata nel 1997 – e presidente dell’associazione italiana delle società di servizi di produzione A.P.E., Marco Valerio Pugini è tra gli ospiti dell’Audio-Visual Producers Summit Trieste 2023, protagonista del panel “The value of producing in Italy” insieme ai colleghi Jay Roewe (SVP, HBO), Federico Scardamaglia (Compagnia Leone Cinematografica) e Veronica Sullivan (Universal).
Panorama, che Pugini ha fondato insieme alla socia Ute Leonhardt, è considerata tra le migliori società sul campo, partner di realtà come Paramount, Sony, Columbia, Dreamworks, Fox e Disney. Da The Great a John Wick 2 a The Old Guard 2 di Netflix, fino alle acrobazie di Tom Cruise nella Roma di Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno, la sua società ha garantito ai grandi produttori internazionali il palcoscenico ideale, in Italia, per scene d’azione e sontuose ambientazioni.
Avete collaborato alla realizzazione delle sequenze romane di Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno. Che tipo di impegno ha richiesto, in termini produttivi, girare in pandemia?
In quel periodo stavamo preparando due film: Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno e Red Notice (con Ryan Reynolds, Dwayne Johnson e Gal Gadot, ndr). Era un momento critico. Avevamo appena mandato a casa centinaia di lavoratori. Abbiamo fatto tutti un grande sforzo, singolarmente e come associazione. A luglio siamo tornati sul set con un protocollo molto rigido. C’era bisogno di ripartire e lo abbiamo fatto. Con Red Notice, dividendoci tra la Sardegna e Roma, e con Mission: Impossible tra Roma e Venezia. Se vogliamo trovare un lato positivo in quel momento di crisi, possiamo dire che l’emergenza ha reso più semplice girare scene come l’inseguimento tra Colosseo e Fori Imperiali, visto che le strade erano quasi deserte. La capitale si è dimostrata più disponibile del solito a piegarsi ai nostri bisogni produttivi.
Come avete suddiviso il lavoro?
Per le riprese a Roma ci siamo mossi all’interno di una bolla. Eravamo tutti nello stesso hotel. Ai piani più bassi il reparto costumi, i tecnici e i generici. Al primo piano gli uffici, al secondo le maestranze tecniche e artistiche. In quelli superiori la troupe straniera. Facevamo tutto lì, si mangiava e si lavorava. L’importante era che tutti fossero in sicurezza per girare al meglio in una Roma completamente vuota.
Quanto conta la “disponibilità” di una città?
C’è bisogno dell’appoggio delle autorità, ma anche della collaborazione della cittadinanza. Volontaria o involontaria. Per Red Notice abbiamo girato alcune scene dal vivo, ma la maggior parte del lavoro è stato completato con gli effetti speciali. Per Six Underground, il film diretto da Michael Bay per Netflix, ci siamo divisi tra Firenze, Siena e Taranto, facendo tutto in loco. Non siamo gli unici. Penso allo sforzo messo in campo dai miei colleghi per le sequenze d’azione di Fast X a Roma e Torino.
La ricetta per realizzare una buona scena d’azione?
È fondamentale prepararle bene e girare con attenzione. Torno su Six Underground. Il film ha un forte impatto sulla città di Firenze. Le scene d’azione le abbiamo girate ad agosto, mentre i fiorentini erano in vacanza. Le sequenze meno impegnative, che non richiedevano inseguimenti ed esplosioni, le abbiamo programmate a settembre. È necessario rendersi conto del luogo in cui ci si trova. Non opporsi, ma immedesimarsi. Prendiamo The Old Guard 2, girato a Roma. Serviva un ponte per una scena complicata, in un posto che fosse storico. Abbiamo piazzato le riprese nel weekend, così che ci fosse meno gente in giro. Bisogna adattarsi. In fondo anche le città contribuiscono al carisma dei film. È necessario saperne rispettare i tempi.
Perché i grandi blockbuster internazionali scelgono sempre più spesso l’Italia?
La questione è una: quando da fuori capiscono che sai fare una cosa, te la fanno fare. La nostra società è cresciuta molto. Vent’anni fa ci siamo immessi sulla scia delle commedie romantiche, Sotto il sole della Toscana o Letter to Juliet. Per noi tutto è cambiato con John Wick 2 e American Assassin (entrambi usciti nel 2017, ndr). Da quel momento siamo andati sempre meglio. È un segnale importante per la nostra industria, in particolare per il personale tecnico, che può permettersi di fare molto di più. Basti pensare che oggi possiamo avvalerci anche di un “marine coordinator” (l’addetto alla supervisione e organizzazione delle riprese in mare, ndr). Prima non sapevamo nemmeno cosa fosse.
Si è dato una spiegazione per questa crescita?
È un cane che si morde la coda. Cresci perché loro vengono qui. Vengono qui e tu diventi più bravo, quindi cresci ancora, loro ti considerano più bravo e tornano a girare qui. Anni fa venivano da fuori e si portavano tutta la strumentazione, perché non avevamo né la conoscenza né i mezzi per gestire tre o quattro monitor in contemporanea. Adesso abbiamo acquisito abilità tecniche e artistiche. Questo processo mi ha ricordato gli anni Ottanta, quando ho lasciato il cinema per lavorare nella pubblicità. C’erano molti più soldi, si sperimentava. Ora lo scenario si è ribaltato. Nel cinema stiamo vivendo una specie di rivoluzione, abbiamo ricevuto molti riconoscimenti. Uno dei nostri location manager è entrato nella “guild” internazionale, un altro è membro dell’Academy.
Anche il turismo in Italia ci guadagna?
Il turismo sì, ma non solo. È importante offrire una vetrina ai nostri prodotti, che si tratti di un mobile o dell’iconica Vespa. Il “product placement” del territorio è un bene, ma bisogna anche valorizzare il resto, il lavoro e le opere artigianali.
La Fiat 500 di Mission: Impossible 7 è stata una vostra idea?
No, loro. Ma fa parte di quell’immaginario.
Come si sceglie una location?
Una cosa che ho imparato negli anni è che spesso un ambiente ricostruito è più reale di quello vero. Si parla prima di tutto con il regista, che dà le linee guida. Poi con lo scenografo e il location manager, che lavora per trovare i luoghi più adatti. Anche il produttore deve avere voce in capitolo. La location non può essere scelta solo perché bella, deve essere anche economicamente sostenibile.
Qual è il più grande risultato raggiunto fino ad ora?
Sono anni che utilizziamo luoghi storici per le riprese. Con l’aiuto della soprintendenza, siamo sempre riusciti a preservarli. Una volta ci hanno persino scritto per congratularsi di come avevamo girato nella Reggia di Caserta, per la serie tv The Great. Un’altra volta ci ringraziarono per il trattamento riservato a Villa Adriana a Tivoli, per Angels in America del 2003. Ci muoviamo nello spazio con cautela. È la nostra cultura, la nostra tradizione, e non possiamo permetterci di intaccarla.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma