Giuseppe Saccà ha le idee molto chiare sul suo futuro e su quello del cinema italiano. Sin da quando divenne, appena entrato come direttore contenuti, CEO di 302 Original Content, in procinto di distaccarsi da Disney e trovare una sua collocazione sul mercato, alla ricerca di un’identità precisa. Ha 40 anni e già un paio di vite da raccontare. Quella di attore (con pseudonimo, Soleri, per ricordarlo a chi sta già per malignare), con l’ispettore Gargiulo de L’ispettore Coliandro che è entrato nell’immaginario televisivo nazionale, e quello da produttore, iniziato a 25 anni con Piano 17, sempre dei Manetti Bros. Percorso consolidatosi con il lavoro decennale con papà Agostino alla Pepito (in cui arriva a scoprire altri due fratelli, Fabio e Damiano D’Innocenzo) e ora appunto con Stefano Basso nella 302 Original Content che diventa, e THR Roma lo annuncia in esclusiva, Eagle Original Content.
Eagle Original Content è un make-up molto abile o rappresenta anche un cambio di direzione e di mission?
Allora, guarda, 302 era una società che è nata a maggio del 2021 per volontà di Euromedia Group, una multinazionale francese. Nasceva dalle ceneri di una business unit interna attiva sulla produzione di live entertainment, in particolare per bambini e ragazzi, e volta alla produzione esecutiva di Disney Channel, prima che cambiasse e divenisse ciò che è oggi. In questi ultimi anni, poi, non è cambiata solo quella major, ma un mercato, un’industria interi.
Era necessario a quel punto cedere quel ramo d’azienda. Era indispensabile che diventasse un luogo dove parlare la lingua del tempo, con prodotti più generalisti. Io ero appena uscito da Pepito, che avevo fondato con mio padre (ex direttore generale della Rai e di Rai Fiction, ndr), e mi piaceva questa sfida, dar vita a quella che tutt’ora è una startup. Una mossa in controtendenza: qui non si trattava di una major che comprava una società indipendente italiana, ma di fatto ne creava una e poi vendeva a un gruppo italiano, perché ormai Eagle è uno dei gruppi più importanti del nostro paese.
Cos’è cambiato con l’ingresso e la collaborazione con Tarak Ben Ammar?
Nulla, in termini di indipendenza. Rimaniamo liberi al 100%, io e il mio partner in crime dentro la società, Stefano Basso, direttore esecutivo e anche produttore: firmiamo tutti i prodotti insieme. Lasciami dire che sono molto orgoglioso di avere attorno a noi due, splendidi quarantenni (sorride, ndr), una squadra giovanissima: sotto di noi sono tutti più piccoli.
Dai primi lavori sembra già evidente una linea editoriale originale.
Ad oggi abbiamo prodotto cinque film per il cinema e una serie tv. Sì, abbiamo una visione precisa di quello che vogliamo fare per renderci diversi dagli altri. Ci troviamo in un mercato audiovisivo in cui spesso i prodotti sono indistinguibili tra loro. Noi abbiamo l’ambizione che si scorga la nostra firma, che si capisca che sia Eagle Original Content a produrre. Se aggiungi che da noi c’è uno star system un po’ stanco, sia dal punto di vista degli autori che degli interpreti, avere le idee chiare diventa fondamentale.
Noi, da subito, abbiamo deciso di lavorare su un segmento di pubblico che ci ha portato a quel punto ad avere a che fare con dei talenti che fossero coerenti con quel target, e mi riferisco ai millennials, a chi va dai 30 ai 40. Un po’ perché anagraficamente lo conosciamo bene, ma soprattutto perché è evidente che tv e cinema si rivolgono ossessivamente o a chi è più vecchio, o alla Generazione Z, dimenticandosi quella fascia che è una cerniera invece tra passato e futuro fondamentale. Lo abbiamo fatto con un primo film che è stato Io e mio fratello di Luca Lucini, raccontando com’è cresciuta la generazione di Tre metri sopra il cielo, come i sedicenni di allora sono diventati oggi. Il film è stato per più di una settimana in vetta alle classifiche dei lavori più visti su Amazon.
E nel futuro di Eagle Original Content cosa c’è?
Stiamo lavorando all’esordio alla regia di Michela Giraud, che si inserisce sempre in questo solco. Stiamo iniziando le riprese di Mani nude, un’opera di genere, uno sguardo d’autore di Mauro Mancini (autore del bellissimo Non odiare, con lo stesso protagonista, ndr). Un lavoro davvero interessante, ha preso il libro di Paola Barbato, scrittrice e sceneggiatrice di Dylan Dog, tra le altre cose, e l’ha adattato e portato a sé. Sarà qualcosa di notevole, un romanzo di formazione durissimo, appassionante.
Confesso che questo libro sul mondo dei combattimenti clandestini che intercettano la vita di un ragazzo di 22 anni è stata una mia ossessione sin dai tempi di Pepito, ma un’altra casa di produzione aveva preso i diritti. Ora io e questa storia ci siamo incontrati di nuovo. Peraltro è uno stile di racconto che piace molto sulle piattaforme e in sala adesso, da L’ultima notte d’amore agli ultimi film proprio di Mancini e Gassmann.
Il film di Michela Giraud immagino sarà più divertente, meno cupo.
Non posso raccontare troppo, altrimenti Vision Distribution mi uccide. Però credo che ci sorprenderà, ci spiazzerà, perché Michela si è messa veramente in gioco. Ha portato dentro al film tanto di sé, non soltanto del suo immaginario comico, ma anche del suo mondo più personale.
Non solo Roma Nord, insomma?
No, anzi, quello è uno specchietto per le allodole – anche se il titolo provvisorio è Flaminia – qui c’è molta più intimità e profondità. Con le dovute proporzioni, ovviamente. Stavo provando a dargli una definizione e mi è venuta in mente un’espressione che un critico ha scritto in occasione della morte di Francesco Nuti. La sua è una malin-commedia.
Piattaforma o sala?
Non è una scelta, ma un sistema integrato. Sono profondamente convinto che non possiamo prescindere dalle sale e credo lo stiano capendo anche le piattaforme, l’industria. Bisogna trovare un modo di convivenza organico, non una rivalità tra le due modalità di fruizione. Tanti film sulle piattaforme sono valorizzati dall’essere andati in sala: anche sotto l’aspetto del marketing è più facile veicolarli, hanno un valore in più. Dobbiamo integrare, non escludere.
Anche perché i millennials, il vostro pubblico di riferimento, è sia analogico che digitale. Di sala e di piattaforma.
Questo intendevo quando parlavo di “generazione cerniera”. Siamo un pezzo di mondo complesso. Metterci in cabina di regia vuol dire dare voce a chi ne ha avuta poca. In passato, penso a Notte prima degli esami e ad altri fenomeni isolati, abbiamo incontrato quella fetta di pubblico. Ma è mancato un approccio sistemico. Abbiamo sfruttato il filone e lo abbiamo lasciato là.
Sulla serialità come state lavorando?
Stiamo producendo per Rai Estranei, una serie scritta da tre ragazzi giovanissimi, che hanno poco più di 30 anni e che hanno vinto con questo progetto Milano Pitch. Racconta una storia ambientata dentro la comunità Sikh, un crime che si sviluppa in un contesto particolare, in Lombardia, dove c’è il tempio più grande d’Europa dedicato a questo culto. La protagonista è una donna, figlia di due mondi, che si trova a lottare con le contraddizioni della sua cultura d’origine e di quella d’adozione, con un omicidio a complicare le cose. La dirigerà Cosimo Alemà.
Il suo cognome, Saccà, l’ha aiutata o penalizzata?
Aiutato, ovviamente. Fosse solo per l’accesso alla professione, oltre che per la fortuna di lavorare con chi ha fatto la storia dell’audiovisivo negli ultimi anni. Ma è una domanda giusta, perché apre una questione: questo è un sistema chiuso ed è uno dei mali del nostro panorama cinematografico. Se alle riunioni dei produttori continuo ad essere uno dei più giovani, abbiamo un problema. Manca un ricambio generazionale, dobbiamo impegnarci perché ciò avvenga. Anche perché se combatteranno sempre quelli che hanno 60,70 o 80 anni, mancherà chi “ha fame” al comando. E senza la fame non si fanno le rivoluzioni.
Qual è il lavoro di un produttore?
In parole semplicissime, io lo vedo come un curatore. Uno che permette che qualcosa accada e allo stesso tempo è il primo partner per la parte creativa, autori e registi.
Dove vorrebbe che fosse la sua società fra cinque anni?
Vorrei che si parlasse di noi come di una fucina di talenti. Vorrei tanti autori fra le nostre scoperte, come accadde in Pepito con i D’Innocenzo. Vorrei che si dicesse che abbiamo saputo intercettare i nuovi sguardi. Nel cinema d’autore come in quello popolare. A volte li abbiamo sotto gli occhi: penso a Michela Giraud, che già faceva numeri incredibili prima di Lol, o ai miei amici Claudio e Fabrizio Colica, una realtà sul web che nel nostro mondo sembra non esistere. Ecco, spero anche che in vista ci sia un esordio cinematografico o seriale anche per loro. Perché come dice Claudio Colica “viviamo in un mondo in cui mio papà non ci si è mai filati fino a che non siamo usciti su Repubblica. Me lo ricordo ancora, torna a casa e ci dice ‘ah, ma allora voi fate sul serio'”. Le Coliche rappresentano quel mondo di chi pensava di avere il futuro tra le mani e si è visto invece tradito dalle generazioni precedenti. Il loro sguardo sulla contemporaneità, ironico e dissacrante, ma anche malinconico, mi interessa molto.
Peraltro in famiglia con i fratelli ve la cavate più che bene. Ultima domanda: Centro Sperimentale di Cinematografia, qual è la sua posizione sull’emendamento al DL Giubileo?
Che una forza politica 3.0 dovrebbe capire, se vuole essere tale, che un organo del genere dovrebbe essere autonomo e indipendente rispetto alla politica. Abbiamo un modello che funziona, in Francia. Dovremmo guardare a quello, invece di continuare a cercare di occupare sterilmente posizioni di potere.
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