La notizia di questi giorni è che è tornato in scena lo sciopero della WGA, la Writers Guild of America: gli sceneggiatori hanno chiuso Final Draft e hanno incrociato le braccia (certo, in quest’ordine). Come era già successo nel 2007, quando, lo si ricorderà, un’adesione pressoché totale degli sceneggiatori alla protesta aveva paralizzato per tre mesi l’industria cinematografica americana.
Sciopero degli sceneggiatori, le ragioni
Ora, uno sciopero si fa quasi sempre per un motivo tanto semplice quanto sacrosanto: essere pagati di più. E davanti all’aspirazione umana di essere pagati di più, bene dirlo subito, il mio cuore palpita di empatia. Questa volta però, si tratta di soldi, ma non solo di quelli. C’è anche il timore, del tutto fondato, che il lavoro stesso dei membri della WGA venga progressivamente rimpiazzato dall’IA.
Del resto, se a noi ci lasciano giocare con ChatGPT, i colossi dell’entertainment avranno sicuramente accesso a reti neurali in grado di sviluppare (in un nanosecondo e a costo zero) infinite variazioni, declinate secondo le sensibilità del momento, delle dodici fasi del Viaggio dell’Eroe, sequel, prequel e remake compresi. Da questo punto di vista, però, è bene dire che se la paura della WGA è fondata, non sarei così ottimista da limitarne la minaccia agli sceneggiatori: fra qualche anno anche registi e attori potrebbero utilmente essere sostituiti da un qualche prodigio digitale. Non sarebbe inimmaginabile, ad esempio, creare degli NFA (non fungible actors) di proprietà delle case di produzione, la cui carriera dipenda anch’essa dagli algoritmi.
La prospettiva, dal punto di vista delle case di produzione, sarebbe allettante per molti motivi: minimo investimento iniziale, disintermediazione assoluta, niente bizze sul set. Castrazione digitale di eventuali epigoni di Weinstein da una parte, niente vittime fuori tempo massimo dall’altra. La possibilità di forgiare in pixel un fuoriclasse assoluto come Kevin Spacey che però, come dicono da quelle parti in cui questa cosa pare straordinariamente importante, keeps his cock in his pants. Nell’epoca delle non-cose, del resto, perché no?
Ma fingendo che tutto questo non sia alle porte, o, meglio, nella certezza che se tutto questo dovesse varcare definitivamente le soglie della nostra esistenza, questo articolo l’avrebbe scritto una macchina meglio di me, resta la questione degli sceneggiatori umani troppo umani in sciopero per guadagnare di più. Ed è su questo punto che sono appena usciti due contributi sapidi, di cui raccomando la lettura, ma che intanto riassumo sperando di suscitare una curiosità che vada un po’ oltre quella che suscita in noi binge-watchers la scritta “nelle puntate precedenti” all’inizio della terza puntata.
Sciopero degli sceneggiatori, le diverse posizioni
Il primo è quello di Guia Soncini su Linkiesta: per Soncini la contraddizione implicita alla lotta degli sceneggiatori è di fatto insolubile. C’è infatti una discrasia tra successo percepito e tornaconti reali che ha preso piede in un mercato saturato dalle piattaforme in cui si nascondono i numeri reali degli spettatori. Questa calcolata reticenza, da una parte garantisce la sovrastima del valore di attrazione complessivo della piattaforma, dall’altro priva la controparte, cioè gli sceneggiatori, dell’unico dato che potrebbe costituire una base sensata di trattativa.
L’altro contributo è quello di Umberto Contarello, che si attesta su posizioni per sua stessa ammissione “urticanti”, e sulle quali, certo, si può essere o meno d’accordo, anche se, per quel che vale, personalmente tendo sempre a essere d’accordo con chi scrive bene, qualunque cosa sostenga. In ogni caso, secondo Contarello, quella dello sceneggiatore non è neanche una professione. Piuttosto un’arte applicata, soggetta quindi a vessazioni e rischi. L’obiezione che sento levare fortissima, a difesa dell’onorabilità e dell’importanza fondamentale di questo mestiere per l’industria cinematografica è naturalmente che non si può liquidare così il lavoro di tanti bravi professionisti: la sceneggiatura è l’ossatura, è lo scheletro del film!
Non solo Boris (la serie)
Comunque la si pensi, non può essere però un caso se esiste un ampio repertorio autoironico, lascito di scrittori-sceneggiatori di assoluto talento, improntato dal più spietato disincanto verso il mestiere che hanno praticato, ovvero quello di imbastire scheletri di film, serie, soap e programmi televisivi. E se la prima cosa che viene in mente è Boris, con quegli esponenti di “sceneggiatura democratica” stravaccati ovunque a scrivere scene così tutte uguali da usare gli shortcuts sulla tastiera, la memoria letteraria mi torna indietro fin quasi agli albori dell’industria cinematografica degli anni ’30, quando P.G. Wodehouse trasfigura e diluisce la sua esperienza di scriptwriter a Hollywood in numerosi racconti e romanzi in cui le case di produzione hanno nomi pretenzioso-fittizi come “Colossal Exquisite” o “Medulla Oblungata Glutz” (il riferimento anatomico al bulbo encefalico lascia intendere una sorta di entità vitale dagli irrefrenabili istinti basici che non dorme mai), capitanate da magnati irrefrenabili pronti a contrattualizzare per pochi dollari qualunque malcapitato, per farlo poi ammuffire come sceneggiatore di film improbabili davanti a una macchina da scrivere in qualche loculo dimenticato dal tempo.
E allora per tornare dove ero partito, continuo a pensare che la WGA faccia bene a provarci, perché, lo ripeto, nutro ogni simpatia per chi vuole farsi aumentare lo stipendio. E sono disposto persino a brandire un cartello con su scritto “la sceneggiatura è lo scheletro del film!”. Purché poi, detto fra di noi, siamo tutti consapevoli del fatto che sì, è vero, la sceneggiatura è lo scheletro del film, ma, almeno per quanto mi riguarda, io, solo dallo scheletro, non sarei in grado di riconoscere neanche mia madre.
Cantautore, scrittore, traduttore e frontman del gruppo toscano Virginiana Miller, Simone Lenzi nel 2013 pubblica il suo primo romanzo: La generazione (Dalai editore). Insieme a Paolo Virzì firma la sceneggiatura di Tutti i santi giorni tratta dal suo libro. Nel 2013, con i Virginiana Miller, vince un David di Donatello come miglior canzone originale per il brano omonimo che dà il nome al film. Lo stesso anno pubblica Sul Lungomai di Livorno (Laterza editore) e vince la 60ª edizione del Premio Ceppo Pistoia con Mali minori (Laterza editore). Nel 2018 pubblica In esilio (Rizzoli).
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma