Il doppio sciopero del 1960, l’ultima volta che la Writers Guild e la SAG-AFRA, rispettivamente il sindacato degli sceneggiatori e degli attori, marciarono spalla a spalla protestando contro i padroni dei mezzi di produzione e, soprattutto, distribuzione, è sicuramente un precedente storico importante delle contestazioni odierne. Eppure, anche se agli storici piacerebbe pensare che il passato sia prologo, o per lo meno un esempio di cosa evitare, nonostante tutti i possibili paralleli tra le due proteste, le differenze sono molto marcate. Oggi il tono è più rancoroso, la posta in gioco più alta.
Televisione e streaming: il filo conduttore tra ieri e oggi
Il filo conduttore è il cambiamento epocale introdotto dalle nuove tecnologie di comunicazione. Nel 1960, si trattava della televisione, oggi è lo streaming. In entrambi i casi, l’arrivo di una nuova fonte di profitti per i produttori fa sembrare i vecchi accordi ingiusti e sfavorevoli. Allora, come oggi, gli artisti vogliono una fetta della torta più grande, o per lo meno più briciole, calcolate su punti decimali di un flusso di denaro impensabile quando avevano firmato il contratto. “Per i sindacati, questi compensi extra sono per un lavoro in più e quindi perfettamente giustificati”, osservò il settimanale Broadcasting nel 1960 in un ottimo riassunto dei cori degli scioperanti. Per i produttori invece erano “compensi doppi per lo stesso lavoro, e assolutamente ingiustificati.”
Leggendo gli articoli sullo sciopero del 1960, durato dal 16 gennaio al 25 giugno, si possono notare delle opinioni pressoché identiche a quelle espresse oggi. “Il business cinematografico è sull’orlo del disastro, al quale ha contribuito ogni sua branca” avvertiva Billy Wilkerson, al tempo proprietario di The Hollywood Reporter.
La conclusione dello sciopero nel 1960
Nel 1960 però, l’arrivo ad una rapida conclusione dello sciopero fu aiutato dal rispetto che entrambe le parti avevano per una serie di norme sociali che ancora non erano state infrante dai social media. Guardando indietro, colpiscono i toni ed il linguaggio moderati usati dai rappresentanti sindacali e aziendali. John L. Dales, segretario esecutivo nazionale della SAG, criticò l’attitudine “miope e belligerante” dei produttori e li rimproverò per aver dato “l’impressione che le proposte del sindacato fossero nuove e rivoluzionarie, quando la verità è che questi principi sono radicati ed accettati”, ma non insultò mai nessuno.
Charles S. Boren, vicepresidente esecutivo incaricato delle relazioni industriali per la Association of motion picture producers, l’associazione dei produttori cinematografici, era solito parlare più con tristezza che con rabbia. “Siamo profondamente dispiaciuti della decisione sella SAG di indire uno sciopero, mettendo così in pericolo migliaia di posti di lavoro e le istituzioni del settore” affermò, esprimendo anche la speranza che una veloce conclusione delle contrattazioni “salvi il lavoro di chi non c’entra nulla con questa lotta”. Certo, era tutta una scena, e a porte chiuse certamente alzavano la voce, come sempre succede nelle discussioni sui soldi, ma il linguaggio diplomatico mantenne gli animi calmi e le relazioni buone.
Sorridenti davanti alle telecamere
L’otto aprile, quando la SAG e la AMPP annunciarono un possibile accordo, il presidente della SAG Ronald Reagan e Charlton Heston, membro del comitato di negoziazione, strinsero la mano al vicepresidente della Columbia B.B.Khane e a Boren davanti alle telecamere. I quattro erano sorridenti, ci si può immaginare che siano andati a bere qualcosa insieme subito dopo. Durante le contrattazioni, i produttori non furono mai così spietati da rendere pubblico il loro desiderio che gli sceneggiatori restassero in povertà e senza una casa; nessun attore usò epiteti da scaricatore di porto.
Allo stesso modo si può parlare della la retorica usata durante lo sciopero della SAG del 1980, durato 95 giorni, incentrato su stipendi e residuali derivanti dalle nuove fonti di profitto dell’epoca, tv pay-per-view, videocassette e CD. Era quasi sommessa, almeno per quello che riguarda la stampa, se paragonata ai messaggi istantanei e pieni di sentimenti che si usano sulle piattaforme odierne, anche se l’attore Ed Asner, come suo solito, fu tanto diretto quanto i giornali permettevano: “Penso faccia schifo” disse dell’accordo che venne alla fine stipulato.
Una minaccia chiamata intelligenza artificiale
Sfortunatamente, lo sciopero del 2023 deve fare i confronti con una minaccia completamente nuova. Lo spettro dal quale Hollywood stessa ci aveva messo in guardia sin dai tempi di 2001 Odissea nello spazio: l’intelligenza artificiale che, a giudicare dalle proposte messe sul tavolo dai produttori, sembrerebbe aver già superato il test di Turing, almeno ad Hollywood. La presidente della SAG-AFTRA Fran Drescher non stava certo facendo un’affermazione luddista quando disse “verremo tutti rimpiazzati da macchine”, sembra anzi che la situazione sia ancor peggiore. L’automazione può rubarti il lavoro, l’IA vuole la tua anima. L’AMPTP, associazione di produttori televisivi e cinematografici, affermava nella sua proposta sull’IA che questa favoriva “un approccio bilanciato basato sull’uso attento, non sulla proibizione”.
In questo senso, gli scioperanti sono i primi a trovarsi sulle barricate di una battaglia che tutti i lavoratori, tutto il corpo politico statunitense dovrebbe combattere. La lotta per un contratto migliore è una questione di dollari e centesimi, si può trovare un accordo, si possono appianare le differenze. Il diritto a possedere se stessi non è negoziabile, è quello che i padri fondatori definirono “inalienabile”, un diritto fondamentale degli esseri umani.
Si possono concedere i diritti di una performance, di un copione, ma a prescindere di quanto uno sia disperato per un ingaggio, non si può concedere il diritto su se stessi. “Avevamo dei volti” dice Norma Desmond in Viale del tramonto. “Vogliamo i vostri volti, le vostre voci, i vostri corpi” è quello che i talenti temono sentirsi dire dai produttori. Non è una questione minore, ma fondamentale.
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