Le partite a Risiko, in casa Leone, non finivano mai. Seduti intorno al tavolo in salotto, il padre del western italiano e i suoi figli Raffaella, Andrea e Francesca si impelagavano in discussioni infinite in un mare di dadi e pedine. “Litigavamo talmente tanto che alla fine non vinceva nessuno. C’era sempre uno che prendeva il tabellone e buttava tutto all’aria. Con altri giochi andava meglio. Ma il Risiko proprio no”.
Il carattere: quello non si discute. Raffaella, la figlia maggiore, conserva ancora la piastrina militare che Robert De Niro, sfiancato da settimane di riprese e discussioni, consegnò alla troupe – lei inclusa – alla fine delle riprese di C’era una volta in America: “Complimenti per essere sopravvissuto”, recitava l’incisione.
Dei famosi confronti infuocati tra Sergio Leone e i suoi produttori, passò alla storia quello con lo statunitense Arnon Milchan, che alle tre di notte del febbraio 1984 lo chiamò per annunciargli che il suo film, in America, sarebbe uscito (ulteriormente) tagliato: non solo non avrebbero mai più lavorato insieme, ma Leone si rifiutò per tutta la vita di vedere la versione “scempiata” di C’era una volta in America.
Un giorno Raffaella disse: “Ho scelto di diventare produttrice per vendicare mio padre, per entrare nel mondo del cinema senza farmi dettare le regole dai tagli e dal mercato”: il carattere, evidentemente, si tramanda. Quando nel 1989 Leone muore, lei e il fratello Andrea prendono in mano la società del padre, la Leone Film Group, trasformandola in una delle più solide realtà produttive italiane. Il papà Sergio resta nel nome, nell’ispirazione, nella direzione: il logo della compagnia è la luna, “Inarrivabile. Ma capace di illuminare il sentiero”. Di padre in figli.
Trentaquattro anni alla guida della società fondata da suo padre. Che voto si dà?
Diciamo che sono soddisfatta. Sono orgogliosa del fatto che siamo rimasti una delle poche società ancora integralmente italiane: non è facile sopravvivere quando sul mercato hai concorrenti giganteschi. Abbiamo sempre rifiutato le offerte di vendita – che sono arrivate, chiariamoci – perché non erano compatibili con la nostra visione del lavoro. E delle ragioni per cui lo facciamo.
Che sarebbero?
Io e mio fratello siamo innamorati del nostro lavoro. Questa società si porta dietro un pezzo importante della nostra vita. È la nostra vita. E quindi non rinunciamo alle priorità: fare cinema di qualità, farlo in tutte le declinazioni possibili. Fare sempre spettacolo.
È un’eredità che le ha tramandato suo padre?
Da lui ho preso la professionalità, credo. Mio padre era un uomo meticoloso, molto attento, non lasciava niente al caso. L’ho visto con i miei occhi, da bambina, quando lo seguivo al montaggio e al missaggio dei film. Mi ha insegnato quanto sia importante circondarti di collaboratori capaci, possibilmente più bravi di te a fare il loro lavoro. C’è questa tendenza a pensare che il regista debba saper far tutto meglio degli altri. No, mio padre aveva un grande rispetto del talento altrui.
E l’eredità personale?
L’amore per il bello. Inteso proprio in senso concreto, cioè la capacità dell’uomo di fare delle cose belle. Papà era un appassionato di gioielli, quelli antichi: amava pensare alla persona che li aveva creati, ai meccanismi che li componevano, alla manifattura pratica. A me piace l’antiquariato, mia sorella Francesca è un’artista (è pittrice, nel 2022 ospite alla 59a Biennale d’arte di Venezia, ndr). Evidentemente è l’imprinting di famiglia.
Suo padre regista. Lei produttrice. Come ha fatto a non farsi schiacciare dall’eredità?
Se avessi fatto la regista sarebbe stato tutto più complicato. Diciamo che la prima “buccia” me la sono tolta presto, da giovane, quando facevo la gavetta alla Tirelli (il celebre magazzino di costumi cinematografici di Roma, ndr). Al tempo la gente era restia ad accettare “la figlia di”, perché per principio passavi per privilegiata. Ma io avevo un padre per cui dovevo essere la prima a entrare al lavoro e l’ultima a uscire. Mi ha educata così e mi ha insegnato a guadagnarmi la stima degli altri. Non siamo stati figli viziati dal nome. Anche perché non ci siamo resi subito conto di quanto fosse grande quello di papà.
Quando se ne è accorta?
Quando non c’era più. I primi tempi che lavoravo in produzione e dicevo chi ero, il cognome suscitava una certa reazione. L’ho capito da grande, chi fosse davvero.
Nel bel documentario di Francesco Zippel, Sergio Leone – L’italiano che inventò l’America, gli ammiratori di suo padre sono tanti. Se lo aspettava?
Da alcuni sì, come Quentin Tarantino. Da altri meno. Le parole che mi hanno colpita di più sono state quelle di Steven Spielberg. Oggi c’è tutto un mondo artistico che si rivolge a lui e alle musiche di Morricone – sono in qualche modo diventati un tutt’uno – e che mi fa pensare che papà abbia veramente segnato un punto di svolta nel modo di raccontare, di inquadrare, di immaginare un film. È stato la porta tra il cinema classico e quello moderno: oggi, anche involontariamente, tanti se lo ritrovano nel dna.
Suo padre litigò spesso con i produttori. Lei con i suoi registi come si comporta?
Cerco di essere rispettosa del loro mondo, capirne le esigenze e accompagnarli nel percorso. Se penso sia necessario, dico la mia. Se ho a che fare con un prodotto diciamo televisivo, con una piattaforma che fa da committente, scelgo. O non lo faccio proprio, sapendo che il cinema offre una maggiore libertà espressiva, o lo faccio cercando di costruire un rapporto di fiducia con gli streamer. Per adesso non mi sono mai trovata a combattere contro l’algoritmo, ma con persone che avevano idee molto precise su come attrarre il pubblico e trattenerlo sul divano.
Se lo immagina, suo padre a discutere di intelligenze artificiali e algoritmi?
Forse non lo avrebbe mai fatto. Mi ricordo quando lavorava in pubblicità e già lì faceva fatica a sopportare quel tipo di lavoro: si lamentava dei tempi, della velocità, anche se la prospettiva di raccontare una storia in un minuto, alla fine, l’aveva presa come una sfida. Essendo stato un uomo intelligente, forse avrebbe provato almeno a capire il meccanismo che regola quel tipo di prodotti.
I tagli a C’era una volta in America: suo padre non li accettò e ne soffrì. Cosa ha imparato da quella vicenda?
(ci pensa, ndr) A fare bene i contratti.
C’è un prezzo da pagare per conservare la propria libertà nel cinema?
Non lo so se ci sia un prezzo. Penso che se scrivi una cosa bella, alla fine ti verrà riconosciuto. Se una cosa è pensata senza puntare esclusivamente all’incasso, che comunque conta, ma è fatta con onestà intellettuale, il pubblico lo riconosce. Il mercato è crudele? Lo è sempre stato. Non si può prescindere dal mercato, ma nemmeno assoggettarsi. Cito solo due autori, Paolo Sorrentino e Luca Guadagnino, che hanno proseguito la loro ricerca e contemporaneamente piacciono al pubblico. Ci sono riusciti meglio di tutti.
Sergio Leone, il papà: quando le manca, cosa fa?
Se sono malinconica, guardare i suoi film non mi fa stare bene. Perché per me non sono film, ma pezzi di vita. Guardarli amplifica il sentimento di una mancanza che è sotterranea e costante. Però mi piace parlare di lui, non mi fa male. L’ho sempre fatto con i miei figli, da quando erano piccoli. Adesso è come se lo avessero conosciuto. E per me, in fondo, è un modo per illudermi che non se ne sia mai andato.
L’articolo originale è stato pubblicato sul magazine The Hollywood Reporter Roma di agosto.
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