Riccardo Tozzi: da Suburræterna alle storie d’amore, non abbiamo bisogno dell’intelligenza artificiale

Più film e meno serie, il caso Citadel in salsa distopica e La strage di Erba. Poi lo sciopero degli sceneggiatori ("una dialettica fisiologica nel mondo dell'industria") ed il dibattito sull'IA ("cerchiamo l'originalità"). L'intervista di THR Roma al patron di Cattleya

Il biglietto da visita è all’ingresso: i poster di Gomorra e di Romanzo Criminale, appesi al muro della sede romana, come numi tutelari – armati e rabbiosi – della casa di produzione italiana che per prima, nel 2008, intuì la direzione che di lì a poco avrebbe imboccato anche il mercato nazionale: quella della grande serialità cinematografica.

Fondata nel 1997 da Riccardo Tozzi, che dal 2017 – dopo l’acquisizione della britannica ITV Studios – ne possiede il 49% delle azioni, Cattleya conta su centinaio di dipendenti, una società sorella che si occupa di pubblicità (Think Cattleya), tre linee di produzione, uno staff all’82% al femminile e una serie di misure prese a sostegno del bilanciamento vita-lavoro. Molti i progetti in cui la società è impegnata, dalla post-produzione della versione italiana della serie Amazon Citadel allo sviluppo per Netflix dello spin off Suburræterna, oltre al nuovo filone “true crime” (storie vere) di cui il progetto recentemente annunciato, La strage di Erba (titolo di lavorazione), fa parte. Ma nel futuro, per Tozzi, si annuncia una svolta: “Aumenteremo il numero di film prodotti e diminuiremo le serie. Si tratta di un riequilibrio naturale, ma il rapporto cambierà”.

Sta seguendo lo sciopero degli sceneggiatori? Che ne pensa?

Penso che sia fisiologico. Anche negli Stati Uniti c’è stato un grandissimo sviluppo delle attività di produzione: sono aumentati gli investimenti e sono arrivati nuovi player. È abbastanza normale che in un quadro di piena occupazione ci siano delle tensioni di tipo sindacale. C’è una pressione su prezzi e condizioni di lavoro. Una dialettica fisiologica nel mondo dell’industria.

Cattleya sta vagliando la possibilità – discussa negli Stati Uniti – di usare intelligenze artificiali per lo sviluppo dei copioni? 

A rischio di etichettarci come arcaici, non ci passa proprio per la testa. Saremo presuntuosi, ma pensiamo di non averne bisogno. Non credo ci sia alcun motivo per farlo.

La velocità, per esempio: in 10 minuti ChatGPT produce un soggetto.

Non credo che in questo momento il mercato abbia bisogno di velocità. Al sistema adesso non serve un’ulteriore accelerazione. La grande fase di sviluppo della produzione, che abbiamo vissuto in questi anni, ha portato a un certo livello di standardizzazione: se c’è un’esigenza, adesso, è la ricerca dell’originalità. Cosa che richiede tempo, non velocità.

Come sarà la Citadel italiana?

I fratelli Russo (i registi di Citadel USA, ndr) sono accaniti fan di ZeroZeroZero (la serie Cattleya di Stefano Sollima, ndr) e sono stati loro a suggerire la nostra società. La parte più difficile è stato il coordinamento editoriale: dovevamo mantenere una nostra autonomia e l’impronta locale in un prodotto che fosse compatibile con quello americano.

E lo specifico italiano quale sarà?

Abbiamo fatto un grande lavoro di ricerca sulla parte visiva. Abbiamo finito le riprese a febbraio, per un’uscita nel 2024. Non so se saremo i primi o i secondi a uscire (altre serie spin off saranno realizzate in Francia, India e Messico, ndr). Siamo in fase di post produzione, che è molto complessa: abbiamo una valanga di effetti speciali. Abbiamo scelto di usare molti ambienti reali, con forti interventi di trasformazione digitale. Siamo italiani, dobbiamo realizzare un prodotto elegante: è la nostra griffe. Gli effetti sono realizzati da un team italiano, uno inglese e uno canadese: l’ambientazione sarà distopica futuristica, abbiamo ricreato un’intera città immaginandola completamente in digitale. Per noi è un apprendistato gigantesco.

Quale il budget?

Si tratta di un grande budget, non paragonabile a quello americano, ma diciamo che quelle cifre le conosciamo. Ci siamo già passati.

La strage di Erba e Il girotondo delle iene, due serie da casi di cronaca: puntate al true crime?

Ci sta appassionando. Abbiamo almeno un altro paio di progetti in questo campo, si sta aprendo un filone. A Erba non ci approcciamo con l’idea di dire la verità sulla tragedia, non siamo collegati in alcun modo con l’ipotesi della riapertura del caso. Non ci importa chi è stato e perché: ci chiediamo come, in un condominio, sia potuta accadere una cosa del genere. Il grande mistero è questo.

Altre serie: Gerri e Suburræterna. A che punto siamo?

Gerri è un poliziesco con un poliziotto anomalo, un personaggio strano, zingaro. Lo stiamo girando a Trani, per la regia di Giuseppe Bonito. Suburræterna è un derivato. Serie come Suburra sono diventate parte dell’immaginario collettivo e i nostri committenti (Netflix, ndr) ci chiedono di non lasciarle, ma di rinnovarle. In testa, come modello, abbiamo Breaking Bad e Better Call Saul. È in postproduzione, uscirà nel 2024.

Cattleya continuerà a fare più serie che cinema?

Oggi è così, ma il mix cambierà. Aumenteremo i film e diminuiremo le serie. Si tratta di un riequilibrio naturale. Adesso facciamo sei sette serie l’anno e un film o due. Cambierà il rapporto. Abbiamo appena finito Nata per te, un film di Fabio Mollo dal libro di Luca Trapanese. Raccontiamo la storia della sua adozione, che ha chiesto come single e gay. Era sempre l’ultimo della graduatoria: un giorno gli si avvicina una bambina, anche lei ultima in graduatoria perché Down. Formeranno una coppia fantastica.

Quali le più grandi sfide nel futuro di Cattleya?

Questo “mondo nuovo” creato dal digitale ha fatto fiorire il nostro mestiere. Ma il ciclo si è concluso. Siamo alla stabilizzazione, che si giocherà su qualità e originalità. 

Fare meno, fare meglio?

Non necessariamente fare meno. Fare meglio con un pochino più di tempo. Ridurre  l’accelerazione. La serialità italiana ha una chance in più rispetto agli altri per la sua parentela con il grande cinema: dopo gli americani i numeri uno  siamo noi. La nostra serialità deve portarsi dietro una cura e una qualità cinematografica. Gomorra e Romanzo Criminale sono stati game changer sul piano internazionale: è l’effetto Roma città aperta. Quando è arrivato il film di Rossellini il cinema dominante era fatto in studio. Con il neorealismo all’improvviso sullo schermo sono apparse le facce vere, gli esseri umani, i luoghi e non i fondali. Uno shock.

Quali generi esplorerete?

Stiamo recuperando il genere “storia d’amore”. Stiamo finendo di montare Un amore, per la regia di Francesco Lagi con Stefano Accorsi, Michela Ramazzotti e Ottavia Piccolo. Un racconto molto romantico, la storia di un amore che dura una vita: vedremo il passato e il presente della coppia, ma ci sarà anche un forte elemento epistolare. I due si scrivono lettere, il loro è un amore nato durante un interrail in Spagna (il biglietto speciale per viaggiare in treno in Europa, ndr) con una forte componente epistolare, e cresciuto nella distanza. Anche Inganno, la serie che stiamo giurando in Costiera Amalfitana, ci diverte moltissimo: c’è un elemento mistery e un amore anomalo e dubbio, quello tra un bel ragazzo giovane e una signora grandicella. L’ambientazione è di lusso, grandi alberghi, bellezze, spider che corrono. Pappi Corsicato dirige ed è scatenatissimo.

Puntate a un effetto White Lotus?

Ho detto al direttore della fotografia di Corsicato: ‘Il pubblico deve sentire il profumo del gelsomino’. Noi italiani per troppo tempo abbiamo rifiutato di mettere in scena le nostre bellezze: non a caso abbiamo l’espressione romana “stai a fa’ la cartolina”, con cui si rimprovera sul set l’operatore per l’inquadratura. Qualcosa è cambiato dopo Montalbano. Gli stranieri si stupiscono che non abbiamo cominciato a farlo prima.

Piattaforme, investitori, produzioni estere: gli “stranieri” ci stanno comprando?

Mi fa sorridere quando sento dire che gli stranieri si sono impadroniti delle aziende italiane. Loro ti comprano esattamente per il valore che hai, per quello che fai. E ti chiedono di continuare a farlo. Sono pregiudizi. Guarda Carlo Verdone, che si lamentava perché ‘ormai è tutto americanizzato’. Lui stesso ha fatto due stagioni di una serie che si svolge a casa sua. Non in Italia: a casa sua. E l’ha fatta con le piattaforme. Il pregiudizio vince sulla realtà.