Simona Ercolani: “Da ragazzina ero un po’ una bulla. Oggi racconto gli adolescenti: consapevoli, ma sopraffatti dalla paura”

"È bellissimo parlare ai ragazzi. Da un lato ritrovi il bambino che è in te, dall'altro c'è la tua parte adulta sana: un dialogo interiore che trasferisci sullo schermo", racconta la Ceo di Stand by me e produttrice di Di4ri, prima serie italiana Netflix per teen. Che qui rivela moltissimo di sé e della sua carriera, dall'esperienza a Chi l'ha visto? a quella di autrice di Sanremo passando per C'è ancora domani: "Ci siamo dentro tutte noi". L'intervista con THR Roma

“La notte prima non si dorme”. Scoppia in una risata Simona Ercolani, Ceo e direttore creativo di Stand by me, società di produzione televisiva e multimediale indipendente fondata nel 2010, quando confida a THR Roma di come si viva il giorno che precede un grande debutto. “C’è emozione e, da un certo punto di vista, ansia perché lavori tantissimo a un progetto e quando vede la luce sei lì che aspetti di scoprire se il pubblico apprezzerà quello che hai fatto”. Il progetto in questione è la seconda parte di Di4ri 2, la prima serie italiana Netflix per ragazzi disponibile dal 6 dicembre con sette nuovi episodi.

Lo scorso ottobre, la prima parte è entrata nella Top Ten dei programmi in lingua non inglese più visti al mondo ed ha debuttato al numero 1 della classifica delle serie tv più viste in Italia. Ma il successo nel genere kids per Ercolini – Premio Flaiano per televisione e radio come produttrice del programma Sfide – arriva da lontano. In questi anni Stand by me, con titoli come Sara e Marti, Jams, I Cavalieri di Castelcorvo, Halloweird, La cartolina di Elena e Crush è diventata un punto di riferimento nel racconto dell’infanzia e dell’adolescenza parlando di tematiche attualissime, dal cyberbullismo al cambiamento climatico passando per le molestie sessuali o l’integrazione in un paese straniero.

I ragazzi protagonisti di Di4ri, serie Netflix creata da Simona Ercolani e prodotta da Stan by me

I ragazzi protagonisti di Di4ri, serie Netflix creata da Simona Ercolani e prodotta da Stan by me

Tanta attenzione al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Perché?

È bellissimo parlare ai ragazzi. Di tutti i lavori nel nostro campo è il mio prediletto. Nei prodotti televisivi, molto spesso, si è cinici. Invece in questo caso no, perché parli a dei ragazzini. Da un lato ritrovi il bambino che è in te nello scrivere e che se sei adulto spesso dimentichi. E dall’altro c’è la tua parte adulta sana, materna. Una sorta di dialogo interiore che poi trasferisci sulla carta. Una pratica particolarmente affascinante rispetto ad altri prodotti che facciamo.

Nello scrivere Di4ri si è resa conto che le problematiche dei ragazzi sono le stesse di quando era adolescente lei oppure ci sono tematiche nuove o di cui prima non si parlava?

Abbiamo la consulenza di una neuropsichiatra infantile proprio per ragionare bene sulle relazioni e sulle reazioni alle cose che accadono. Lavorando a Di4ri ho capito che ero un po’ bulla da ragazzina. Però all’epoca ero considerata simpatica, vivace. Rileggendo la mia esperienza personale – perché scrivi di quello che sai e ritiri fuori i momenti della tua vita, infanzia e adolescenza – mi sono resa conto che in alcune circostanze ho avuto degli atteggiamenti da bulla che non erano considerati bullismo. Io stessa non li consideravo tali. Ho realizzato come, per fortuna, alcune cose siano cambiate nel corso degli anni. Il mondo è andato avanti, le relazioni tra le persone sono migliorate. C’è più attenzione rispetto a quando ero ragazzina io.

In questi anni vi siete confrontati anche con bambini e adolescenti per riportare un racconto più verosimile possibile?

Abbiamo fatto tantissime interviste a ragazzi tra gli 11 e i 14 anni, tra le 3.000 e le 5.000. Abbiamo fatto anche dei focus group su dei temi specifici trattati nella serie come bullismo e relazioni affettive. Quello che emerge è che da una parte sono più consapevoli di noi. Dall’altra sono molto più ansiosi e pessimisti. Sono sopraffatti dalla paura. In famiglia c’è sempre molto allarme per qualsiasi cosa che poi si trasferisce nella quotidianità. “Ti devo accompagnare a scuola perché è pericoloso”. “Non puoi uscire da scuola perché è pericoloso”. “Non ti fidare”. Banalmente quando ero piccola – oltre ad andare e tornare da scuola da soli – giocavamo per strada. Oggi la città o il paese in cui abitiamo appartengono di meno ai ragazzi.

Quando ero piccola avevamo la sensazione di essere protetti all’interno della comunità. Oggi invece non è vissuta come un sistema di protezione. Il messaggio che viene trasmesso è: “Siamo soli in un mondo pieno di pericoli”. Un altro dato emerso che mi ha fatto riflettere come madre è la solitudine. Nonostante i genitori siano iperaccudenti: “Mi trattano da piccolo ma se ne fregano di me”. Che è una contraddizione in termini. Inoltre non apprezzano gli adulti. “Non voglio essere come loro”. Lo dice anche il nostro protagonista. I ragazzini cercano un adulto di riferimento ma raramente lo trovano.

Altri aspetti?

Le amicizie sono importantissime. Forse è la cosa più importante per loro. L’amore, l’affettività, l’infatuazione sono vissute con molta più timidezza e con dei passaggi attraverso i social. Prima ti cominci a seguire sui social, poi ti scrivi un messaggio privato magari su TikTok, da TikTok passi a Instagram e da Instagram a WhatsApp. C’è un’escalation di intimità attraverso i social. Molti ragazzi si mettono insieme prima su WhatsApp e poi cominciano a uscire. Lo raccontiamo attraverso l’arco narrativo di uno dei nostri personaggi. Tutto è filtrato. Globalmente siamo nell’era della diffidenza. Nessuno sa più cosa è vero e cosa è falso. I ragazzini assorbono questa diffidenza in casa che poi si riflette sulle relazioni. Ma essendo piccoli questo aspetto ha anche l’effetto contrario: facilmente si cade nelle mani dei manipolatori. A tanta diffidenza corrisponde altrettanta ingenuità.

Sofia Nicoli e Fiamma Parente e Liam Nicolosi in Di4ri, serie Netflix prodotta da Simona Ercolani per Stan by me

Sofia Nicoli e Fiamma Parente e Liam Nicolosi in Di4ri, serie Netflix prodotta da Simona Ercolani per Stan by me

Crede che il controllo che viene esercitato su di loro faccia passare il concetto che l’affetto è possesso?

Assolutamente. Il controllo è un tema di oggi, anche molto problematico. Nel caso dei genitori compensa il senso di colpa. “Lo controllo quindi lo sto seguendo”. In realtà non è così. Sto semplicemente facendo una cosa che serve a me. Cioè mi scarico del senso di colpa. Mi occupo d’altro, sono in un altro luogo – anche emotivamente – però lo controllo, così placo la mia ansia. Serve ai genitori controllare i figli più che ai ragazzi stessi.

Questa stagione di Di4ri si concentrerà sugli esami di terza media e quindi con la scelta del proprio futuro. C’è la consapevolezza da parte dei personaggi che un piccolo capitolo della loro vita è finito. Come lo avete raccontato?

Ci siamo ispirati a una storia vera che ci è stata raccontata da una ragazza di terza media. L’abbiamo raccontata con il patto del falò. “Questa è la mia comunità, non voglio che ci disgreghi per cercare di seguire ognuno le proprie vocazioni”. Si mettono d’accordo all’inizio della stagione per andare tutti nello stesso liceo. Alla fine della prima parte di stagione litigano perché Giulio, un personaggio molto legato al protagonista, ha una grande passione per la creazione di videogiochi e quindi dice: “Voglio andare all’informatico, non allo scientifico”. Prevale cioè l’io sul noi. Questo scatena una lite furibonda con cui abbiamo chiuso e riapriamo questa seconda parte.

Ritroviamo i protagonisti di una serie corale separati, in micro gruppi, in cui lentamente trovare una soluzione sia collettiva che individuale. C’è anche l’ansia da prestazione, il primo esame della loro vita e la prima grande battaglia nei confronti dei genitori. I tuoi genitori ti dicono che devi fare una cosa ma tu vorresti fare altro. Un aspetto autobiografico, capitato anche a me. È l’inizio dell’adolescenza in cui prendi le distanze da loro e ti ribelli. Sarà divertente vedere come tutto questo darà i suoi frutti nel primo anno di liceo. Perché finisci le medie che sei il più grande della scuola e ricominci che sei di nuovo il più piccolo.

Lavorando a Di4ri che obiettivi vi siete posti nella rappresentazione dei ragazzi?

Un altro dei temi che viene fuori dall’incontro con loro è quello dell’infantilizzazione. Spesso ci hanno detto che sono più grandi di come li disegnano gli adulti. Hanno più sentimenti, sfumature, emozioni, problemi. È più facile per noi adulti avere a che fare con un bambino che puoi controllare con facilità rispetto alla gestione del rapporto con un adolescente. Ma la pre-adolescenza e l’adolescenza sono interessantissimi, perché sono piccoli adulti innocenti, sono trasparenti come l’acqua di un ruscello. È un’età bellissima raccontata molto poco. Normalmente nei prodotti televisivi si raccontano più stupidini, oppure l’estremo opposto come gli adolescenti perduti di Euphoria. Noi abbiamo scelto una strada diversa, di scrivere cioè una serie in cui tu ragazzo ti puoi riconoscere.

L’ambiente prevalente è la scuola esattamente come è nella vita dei ragazzi, le dinamiche sono basate su storie vere e a questo si aggiunge anche il rapporto con lo spettatore attraverso l’eliminazione della quarta parete del protagonista di puntata che ti parla direttamente, ti rende il suo miglior amico, si mette in comunicazione con te. È una relazione molto stretta che si basa sul realismo. Nell’era della diffidenza, il realismo è quello che serve. I prodotti per ragazzi sono stati tradizionalmente aspirazionali come racconta il mondo Disney. Un mondo che non esiste storicamente. Noi da subito abbiamo scelto il realismo. La realtà non è così male. C’è una considerazione nei confronti del pubblico anche maggiore. Siamo tutti in grado di vedere la realtà con il suo bello e il suo brutto.

Sofia Nicolini e Andrea Arru in Di4ri, serie Netflix prodotta da Simona Ercolani per Stan by me

Sofia Nicolini e Andrea Arru in Di4ri, serie Netflix prodotta da Simona Ercolani per Stan by me

È stata inviata di Chi l’ha visto?. Quell’esperienza cosa le ha insegnato?

Ho cominciato facendo documentari. Poi sono stata chiamata a Chi l’ha visto?. Il capo progetto era Pier Giuseppe Murgia. Un vero maestro. Ho imparato a raccontare le storie e ho imparato cos’è questo paese. Per cinque anni l’ho girato entrando in una quantità di case e andando in una quantità di posti dove non sarei mai andata senza fare quel lavoro. Mi verrebbe da dire che quella è la vera Italia, la pancia del paese. Federica Sciarelli ti accompagna ogni settimana in un viaggio incredibile con grande fermezza, delicatezza e rigore. È stata una scuola di vita e professionale. Come spettatrice lo continuo a vedere. Mi viene sempre in mente che è un mondo molto poco rappresentato dai media.

Se posso fare un parallelo, con tutte le dovute differenze – perché lì si tratta di drammi, scomparse e omicidi – è un mondo affine, che esiste, maggioritario che è quello di Nuovi eroi che facciamo su Rai 3. Sono le storie delle persone che hanno avuto l’onorificenza civile dal presidente Mattarella. Persone semplici che fanno una vita semplice e che vivono in case semplici. Sono simili a tutti noi. Persone in cui ti specchi. “Quel centrino è come quello che mi ha regalato mia zia”. “Quel modo di piegare il tovagliolo è come lo fa mia madre”. Anche se agli occhi di qualcuno può sembrare un mondo antico, in realtà è molto contemporaneo.

Quello stesso mondo in cui ci si ritrova guardando C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Lei lo ha visto?

Non mi emoziono mai quando vado al cinema perché ho uno sguardo più professionale, non mi lascio mai andare completamente. Eppure mi ha colpito tantissimo perché ci siamo tutte noi. C’è mia madre, le mie zie, le amiche di mia madre. Ci sono anche io. È pazzesco. Ho sofferto per mia madre. Quello che ho visto nel film corrisponde a dei suoi racconti. È molto anziana, l’ha vissuto. E poi quello che mi è piaciuto tantissimo del film è che vengono rappresentati vari tipi di donne, non solo la vittima. La stessa protagonista ha un suo modo di combattere. Non c’è la vittimizzazione, che è una cosa che mi manda fuori di testa. Non voglio essere compatita, voglio essere rispettata che è un pochino diverso. C’è la moltitudine, non siamo ridotte a donne che subiscono violenza. Non è così semplicistico. Una cosa veramente encomiabile.

Suo padre ha lavorato come capo elettricista nel cinema. Di racconti ce ne saranno stati molti. Crede che, in parte, il suo interesse per le storie arrivi anche da lì?

Sì. Tra l’altro era un grande narratore e, nonostante fosse una maestranza, il cinema dei suoi anni aveva dei grandissimi maestri intellettuali. Ha lavorato tantissimo con Michelangelo Antonioni che se l’è portato in America per girare Zabriskie Point, il primo film fatto da un italiano ad Hollywood. È stato via un anno e il rapporto tra loro era proprio com’era una volta, cioè di mentorship. Per cui l’operaio che non aveva avuto la possibilità di studiare quanto avrebbe voluto veniva aiutato da chi aveva avuto questa chance. Lo ricordo come fosse oggi: Antonioni gli fece comprare L’enciclopedia del pensiero filosofico scientifico di Ludovico Geymonat. Quando papà non lavorava leggeva questi libroni che poi Antonioni gli spiegava. Ma le faccio una confessione.

Quale?

Ho visto C’è ancora domani una settimana fa e vedendo il film ho pensato che mio padre – che non dico fosse un violento e mia madre non mi ha mai detto che l’abbia picchiata – lo potrebbe aver fatto. Ho ritrovato delle cose minime nel personaggio di Valerio Mastandrea nei miei ricordi. Una cosa che mi ha fatto molta impressione perché ho sempre idealizzato mio padre. Questa è l’altra funzione del film. Mio padre non è un uomo da idealizzare. Non è stato un bravo padre, è stato assente e molto duro. Ha impedito a mia madre di lavorare, cosa che lei avrebbe voluto fare.

Lei all’orecchio mi diceva: “Devi essere indipendente”. Anche loro hanno avuto la loro crisi matrimoniale di cui ho vaga memoria. Però me la ricordo mia madre che dice esattamente quello che dice la protagonista del film: “Ma dove vado? Come faccio?”. Oltretutto il personaggio di Cortellesi lavora, mia madre non ha potuto perché mio padre diceva che sarebbe stata una vergogna. E sto parlando dello stesso uomo che studiava filosofia con Antonioni. Da lì siamo arrivati a me che guido un’azienda, che sono indipendente e mi sono sempre mantenuta da sola. Dobbiamo fare un monumento alle nostre madri perché sono loro che ci hanno regalato la cosa più importante: la libertà. E tu la libertà ce l’hai solo attraverso l’indipendenza che raggiungi se studi.

Flavia Leone in una scena di Di4ri, serie Netflix prodotta da Simona Ercolani per Stan by me

Flavia Leone in una scena di Di4ri, serie Netflix prodotta da Simona Ercolani per Stan by me

Quando ha scoperto di essere incinta della sua prima figlia è stata licenziata.

È stata una donna che mi ha “denunciato”. Ero l’ultima arrivata, portavo i caffè. Mi sono confidata e lei l’ha detto al capo. Lui mi ha guardata e mi ha detto: “Peccato perché sei portata per questo lavoro, ma in queste condizioni…”. Io, senza saperlo, avevo firmato un licenziamento in bianco. Ho ricominciato facendo la segretaria in uno studio di ingegneri a battere a macchina. Però oggi se da una parte la consapevolezza dilaga, dall’altra c’è un riflusso abbastanza inquietante. C’è una polarizzazione, si parla di guerra di sessi. È folle. Nel momento in cui dai un nome alle battaglie civili delle donne e la chiami “guerra dei sessi”, andiamo a sbattere. La polarizzazione è il nostro nemico numero uno. Bisogna evitarla in tutti i modi perché le donne vanno liberate, non politicizzate. Devi essere, per dirla televisivamente, il più generalista possibile. Per far passare dei contenuti e migliorare la condizione delle tue sorelle devi essere generalista.

Lei è stata anche autrice di Sanremo.

Ho fatto anche l’edizione con Pupo e posso dichiarare senza tema di smentita che non ci sono stati condizionamenti.

Una macchina così gigantesca e con una cornice che forse è ancora più importante del contenuto, cioè delle canzoni, come si costruisce?

Ho lavorato alle edizioni 2010, 2011 e 2012. Antonella Clerici, Gianni Morandi con Luca e Paolo e poi Morandi con Celentano. All’epoca c’erano le vallette e noi facemmo i primi tentativi di dare loro un ruolo. Abbiamo lavorato con Elisabetta Canalis e Belén Rodríguez. La prima intervistò Robert De Niro, la seconda cantò con il padre e la scoprimmo stupenda, intonata e ballerina. Cercammo di dare loro uno spazio di spettacolo. Dopodiché nel pensare ai contenuti ovviamente da una parte c’è la linea musicale dall’altra lo spirito del tempo.

Il tentativo era quello di intercettare il sentiment del paese e portarlo mezzo passo avanti nell’essere però il più generalisti possibile perché è un grande evento popolare e tu devi prendere tutti, dal bambino al centenario, dal conservatore all’iper-progressista. La difficoltà è proprio quella: cercare di andare un pochino avanti rispetto al sentiment “riformista” del paese – non in senso politico – mantenendoti generalista. Sembra facile ma non lo è. Abbiamo avuto sia il governo Berlusconi che Monti in quei tre anni.

E non c’è mai stata, non un’ingerenza, ma quantomeno un’attenzione alla situazione politica?

Non ti arriva la telefonata, ma ti rendi conto del mondo in cui vivi. Se è vero che Sanremo è un un pelo più avanti nel sentiment migliore del paese – perché è sempre aspirazionale – dall’altra hai percezione del contesto in cui ti trovi. Non perché tieni conto della politica, ma se il paese ha espresso quella preferenza, indicando una direzione, un motivo ci sarà. Devi saper leggere la realtà. E la realtà è un argomento testardo. In questo senso ti fai condizionare dal contesto politico ma semplicemente perché il paese in quel momento è in quel mood lì, non perché il paese vota quel partito o quel determinato partito ti chiama e ti dice cosa devi fare.

Da Di4ri alla miniserie su Marconi. Con Stand by me qual è l’obiettivo che vi siete posti?

Mantenere i posti di lavoro e aumentarli perché il valore più grande per me di Stand by me è la comunità che si è costruita intorno a un piccolo ufficio di Prati, a Roma, in cui, piano piano, si sono aggiunte persone, sono nate redazioni, sono nati un botto di figli (ride, ndr). Siamo per maggioranza ragazze, spesso nei posti di rilievo. Dal capo del finance al capo delle produzioni. È una comunità di cui sono molto orgogliosa. C’è molto la sorellanza. Per esempio lo scorso anno ci sono state sei gravidanze contemporaneamente. Il panico! Ma ci siamo aiutate e sostenute, oltre che scambiarci vestitini e carrozzine. È una cosa strepitosa. Bellissima.

Dal punto di vista dei contenuti?

Voglio tornare in Top Ten Global con Di4ri perché devo dire che è veramente una bella sensazione (ride, ndr). Non ce l’aspettavamo, però l’idea che siamo stati in Top Ten in 37 paesi del mondo con un prodotto in italiano su dei ragazzini con competitor come Lupin. Quello che paga e che ha fatto salire nel gradimento la serie credo sia, oltre alla pregevole regia di Alessandro Celli, l’innocenza dei protagonisti. Non bisogna per forza fare gli effetti speciali per intrattenere. Voglio anche continuare a implementare lo scripted e i formati originali. Creare da zero piuttosto che appoggiarsi a formati internazionali. È la differenza tra fare il muratore e l’architetto. Fare il muratore è bellissimo. dipingi le pareti, metti mattoni, eccetera. Però disegnare la casa e poi costruirla con le tue mani è più bello.

Qual è il suo sogno nel cassetto?

Fare una serie per ragazzi in inglese internazionale. Parlare ai bambini del mondo. Sono il nostro futuro. E cosa c’è di più emozionante ed eccitante che scommettere sul futuro?