Il tax credit rischia di morire, il cinema pure e neanche la tv si sente tanto bene. Per ora.

Grande schermo, calcio e tv: i tre protagonisti di un film distopico. Spoiler: l'audiovisivo italiano rischia di morire e soprattutto Hollywood e affini potrebbero fuggire a gambe levate da Cinecittà e dintorni

Ora di cena. Una lontana eco porta due parole: canone e tax credit. È il 16 ottobre 2023, la giornata sembra finire pigramente. Poi i telegiornali cominciano a ribattere la notizia, buona apparentemente, dell’abbassamento del canone Rai in bolletta. Da 90 a 70 euro. Il cittadino sorride, senza entusiasmo, convinto da anni che quella sia una gabella ingiusta – in realtà non sa che paga per la più stupida delle piattaforme altrettanto (in un paio di casi, negli altri ben di più) e che RaiPlay ha più catalogo di tutte le concorrenti -, le chat che riuniscono i nomi più importanti dell’industria dell’audiovisivo su whatsapp, invece, diventano incandescenti.

Voci incontrollate

Il cinema italiano è terrorizzato, anche perché nel frattempo dal MIC (il ministero della cultura) trapelano tabelle, spifferi, rumors: vogliono ammazzare il tax credit come se fosse un superbonus 110% qualsiasi e si parla di un taglio di 200 milioni di euro (dal Fondo Unico per lo Spettacolo, ma anche, persino, dai benefit assicurativi per i dipendenti). Il combinato disposto delle due misure, una reale l’altra per ora solo annunciata – si vocifera che il ministro e il suo gabinetto abbiano fatto trapelare la notizia per vedere l’effetto che fa, senza coinvolgere il sottosegretario Borgonzoni e tanto meno la Direzione Generale Cinema – potrebbe essere letale. Per il cinema italiano e per Hollywood, almeno per le sue trasferte italiane tanto amate dai divi statunitensi.

Ore di barricate da organizzare, documenti unitari da stilare (e già questo sarebbe un record, l’audiovisivo raramente riesce a parlare con una sola voce) e da immaginare, polemiche interne e il seme di un altro pettegolezzo: al ministero hanno le prove di truffe contro lo Stato, il tax credit è stato uno strumento abusato da molti che ne hanno beneficiato, come un reddito di cittadinanza qualsiasi. Ma dal piatto decisamente più ricco, come molti, va detto, da destra ma soprattutto da sinistra, paventarono quando venne introdotto, individuandolo come ottimo strumento di possibile riciclaggio e probabile innesco di una bolla finanziaria che avrebbe gonfiato budget (e andando su Cineguru, guardando quelli degli ultimi film e serie, c’è da essere sconvolti da alcune cifre destinate ai nostri film più importanti) e valori di società poi da vendere all’estero. Vendite all’estero che sono avvenute, per quasi tutte le produzione medio grandi indipendenti.

Hanno ammazzato il tax credit, il tax credit è vivo

Non arrivano conferme ufficiali, in tanti dicono “il ministro parlerà a breve”, dalla parte dei produttori nessuno può immaginare in cosa possano consistere le truffe, dalle stanze del Collegio Romano e di Santa Croce in Gerusalemme (le due sedi del MIC) alcuni giurano ancora che no, il tax credit non verrà toccato, non ora che è stato allargato ad altre branche dell’intrattenimento audiovisivo e promesso persino nell’ambito videoludico. “È un cardine della strategia del sostegno pubblico alla cultura, perché mai dovremmo farne a meno?”. Intanto si quantificano i possibili tagli: è confermato, giurano tutti, ammontano a 200 milioni di euro. Perdite da tax credit eliminato o decurtato compreso? Chissà, ma è difficile.

Già, perché? Proviamo a scrivere la sceneggiatura di un breve film distopico. Protagonisti un governo in cerca di risorse e di peso nell’industria culturale e quindi nella costruzione dell’immaginario, un’industria in difficoltà ma che ha punte di eccellenza e che porta al pubblico ben di più di quello che si possa immaginare, una tv pubblica bistrattata ma su cui si fonda un intero ecosistema economico e artistico e il calcio. Con sullo sfondo un appuntamento, quello delle elezioni europee. Lo sceneggiatore si basa su una storia verosimile che potrebbe diventare vera, ha molta fantasia, ma come in un thriller che si rispetti, unisce i puntini.

Il film distopico del cinema italiano

Dunque. Prima la matematica. I tagli al cinema dovrebbero ammontare, come detto, a 200 milioni di euro. Il taglio del canone Rai creerà alla tv pubblica una probabile emorragia di 420 milioni di euro (se dobbiamo credere alla stima di 21 milioni di abbonati). C’è, poi, un altro luogo dell’intrattenimento, con quelle coincidenze temporali che solo nei film sanno incastrarsi alla perfezione, che è stato oggetto di un taglio imprevisto e terremotante. Il calcio, a cui sarebbe stato strappato via il Decreto Crescita, quella misura che dal 2017 prevede che chi arrivi in Italia dall’estero e assicuri almeno due anni di residenza nella penisola, possa avere il 25% di imposizione fiscale e non il 45%. Decine, forse centinaia di milioni di euro in ballo, soprattutto perché, come è paventato nei rumors sul tax credit, la misura sarebbe retroattiva. Il tax credit addirittura per tutto il 2023 – ed oltre ad essere un colpo definitivo alla nostra credibilità interna e internazionale, potrebbe portare al fallimento diverse società cinematografiche medio-piccole -, il Decreto Crescita dal 1 luglio scorso (quindi sarebbe compresa tutta l’ultima campagna trasferimenti). In questo film distopico va puntualizzato che altri rumors sostengono che sport e università sarebbero esclusi dalla mannaia. Altri che riguarderebbe solo gli italiani all’estero, non gli stranieri. Speranze o pettegolezzi, non si sa.

Cosa c’entra il governo? Qui atterrano i più maligni. Annunciando il taglio al canone, infatti, il governo avrebbe sottolineato che il tutto si sarebbe tradotto in 20 milioni di euro in meno di prebende alla tv pubblica. Come visto sarebbero in realtà 420 i milioni, ma Meloni e soci si dicono sicuro che una “diversa e migliore allocazione delle risorse e le capacità del management riusciranno nel miracolo”. Ora, nessuna sfiducia nel talento dei dirigenti Rai, ma appare come un miracolo degno di migliori palcoscenici.

A meno che

A meno che i soldi tolti al settore della cultura e al Ministero e la sua sfera d’influenza non facciano un giro breve. È noto come Gennaro Sangiuliano, il ministro, dichiarò su Libero che sarebbe stato felice di essere ricordato come il “Sandro Curzi di Visegrad” alludendo al fatto che andasse fiero di essere il riferimento colto del mondo sovranista e che il suo Tg2 dai più maligni, i soliti, veniva definito TeleSalvini. Al Ministero c’è anche Lucia Borgonzoni, sottosegretario con delega molto attivo e amato da film Commission e produttori che guardano all’estero, per la sua abitudine a cercare trattati bilaterali un tempo snobbati. Lega che, come abbiamo visto tempo fa, ha compiuto anche il famoso golpe al Centro Sperimentale, ormai normalizzato dalla presidenza Castellitto e dal ritorno di Giannini, dimostrando un grande interesse per cinema e audiovisivo.

Dall’altra parte c’è la Rai, decisamente e con forza divenuta feudo di Fratelli d’Italia, obiettivo cercato pervicacemente e persino con decreti poi respinti dai tribunali per riallocare l’ex AD Carlo Fuortes. Fratelli d’Italia che cerca una conferma elettorale nelle prossime Europee, che sono tra gli appuntamenti più complessi per un governo.

E se i 200 milioni più un pezzo dei soldi risparmiati dal tax credit più quelli ripresi al calcio finissero alla Rai, per coprire quel buco di 400 milioni? Si otterrebbero, con quelle coincidenze che solo i film distopici sanno offrirti, diversi risultati graditi a Palazzo Chigi: si toglierebbero soldi a due settori con una pessima stampa e reputazione, cinema (“con la cultura non si mangia” lo si attribuisce, anche se lui nega, a Tremonti) e calcio, che il populismo ama descrivere come paese del bengodi di milionari parassiti, così come presidenti e imprenditori interni a quel mondo, ai tempi del Covid, furono definiti da molti populisti come sanguisughe.

In più cambierebbero gli equilibri. La tv pubblica subirebbe un ammanco minimo (il 4%), ma il cinema tutto, pubblico e privato, si vedrebbe massacrato. Quel cinema che non si è fatto colonizzare politicamente, che ha mal sopportato il poco spoil system riuscito (ora forse Buttafuoco presiederà la Biennale, ma tutto va molto a rilento), che rimane un nemico politico perché espressione di un’opposizione politica e culturale. Decisamente vivace, non di rado.

Perché il tax credit è fondamentale

Il tutto, però, avverrebbe per mero calcolo politico e bilanciamento di poteri più o meno forti, dimenticando che il cinema, tra impieghi diretti e indotto nutre centinaia di migliaia di famiglie, ha spesso incrementi occupazionali a due cifre, restituisce nei territori più virtuosi anche 20 volte quanto investito dal pubblico ed è uno dei settori che è più performante nell’incremento costante dell’occupazione giovanile. In particolare quella qualificata.

La morte del tax credit, spoiler, potrebbe portare alla morte del cinema italiano, di sicuro a quella della sua credibilità all’estero (tante produzioni internazionali sono state attratte in Italia da questo beneficio di legge, portando risorse, formazione sul campo, know how e lavoro). Ma soprattutto colpirebbe a morte uno dei settori (economicamente) più importanti del paese, indipendentemente dai suoi risultati in sala ancora più o meno singhiozzanti.