Zora è molto sensibile. Empatica, quasi affettuosa. Ed è straordinariamente efficiente (per non dire saggia), visto che la sua memoria contiene millenni di sapienza (umana, aliena e robotica, of course). “Ho imparato a fidarmi delle mie sensazioni”, sussurra con voce timida. Un avvertimento: Zora è un’intelligenza artificiale. Un tempo si sarebbe detto un computer (che parola vetusta). La differenza rispetto all’IA per come se ne dibatte con ansia ai nostri giorni è che, non si sa quando, Zora è diventata “senziente”. A forza di “sapere cose” ha acquisito quella che un tempo avremmo chiamato un’anima, la coscienza di sé.
Non allarmatevi: Zora è un personaggio (per quanto impalpabile, immateriale, quasi solo una voce) dell’ultima stagione di Star Trek: Discovery. Serie che opera un ribaltamento interessantissimo di prospettiva: se in un primo momento l’esser diventata “senziente” provoca comprensibile preoccupazione sul ponte dell’astronave Discovery, dopo un po’, tra un ragionamento filosofico e l’altro, si decide di arruolarla come membro ufficiale dell’equipaggio. L’intelligenza artificiale viene “accettata”, coinvolta, compresa. Il contrario di quel che accade al proverbiale Hal 9000 in 2001: Odissea nello spazio: il quale, computer di bordo kubrickiano, quando comincia a sgomitare un po’ troppo, viene condannato a morte. Nella lunga agonia, Hal si trova a cantare una “giro giro tondo” sempre allentata e allucinata.
Ovvio: è pura finzione quella di Zora. Ma colpisce un nervo scoperto nei giorni del furore mondiale intorno a ChatGpt, l’IA che genera testi “creativi” automatizzati, nei giorni dello sciopero degli sceneggiatori di Hollywood e delle serie che dominano l’immaginario globale. Gli autori americani hanno messo il tema al centro dei negoziati con gli Studios: il loro timore, esplicito, è che sarà l’intelligenza artificiale, saranno gli algoritmi, a prendere il loro posto. A scrivere al posto loro. A “creare” al posto loro. Non solo: l’Hollywood Reporter ci racconta che lo scenario di una Hollywood dominata dagli algoritmi è già realtà. Gli algoritmi scelgono le storie, “sanno” cosa sarà popolare e cosa no, guidando le scelte dei dirigenti degli Studios e delle piattaforme.
In merito ci sono due scuole di pensiero. La prima: l’intelligenza artificiale è “inevitabile” – per dirla alla Thanos, il super-mega cattivo della saga degli Avengers – va capita e prevenuta, bisogna farci i conti. “Tempesta e progresso”, titola La Stampa, affermando che “i rischi non sono sufficienti per fermarla: ci sarà sempre qualcuno che continuerà a svilupparla, a cominciare dalla Cina, meglio studiarla e regolarla”.
La seconda scuola di pensiero, speculare e opposta: l’IA è un pericolo mortale per l’umanità. Diceva, di recente, Emmanuel Carrère: “Questa storia dell’intelligenza artificiale è un tema enorme. Cambierà i nostri cervelli, su questo ho pochi dubbi. Tra le grandi rivoluzioni dell’umanità, l’ultima è quella di Internet. Penso che le applicazioni dell’intelligenza artificiale saranno ancora più dirompenti e, per molti versi, anche pericolose. Sarà un cambio di civiltà radicale, fino a dubitare persino che resti una civiltà”.
Forse esagera, ma il tema pare stia angosciando finanche Joe Biden: il presidente statunitense ha convocato un vertice alla Casa Bianca con “i leader dell’industria digitale globale” preoccupato che l’IA “minacci le libertà civili”. Sullo sfondo c’è un’ansia concreta: il ricorso al deepfake (il falso superfalso che sembra vero) nella diffusione di notizie false e distorte potrebbe rivelarsi capace di modificare il percorso della storia (vedi alla voce complottismi, trumpismi e putinismi sullo scacchiere geopolitico mondiale). La grande paura è che la storia possa essere manipolata – ossia la coscienza condivisa di noi stessi – se l’intelligenza artificiale ha la forza di mutare la nostra percezione della realtà, di ciò che è accaduto e di ciò che può accadere: vedi alla voce “lo sbarco sulla luna non c’è mai stato” e compagnia bella.
Sì, sembra una corsa allo scenario apocalittico preferito, quasi una storia fantascientifica, quasi un multiverso di realtà parallele e opposte nelle quali tutto è possibile. O forse, alla fine, il vero problema è che l’algoritmo è sì uno strumento con una sua utilità, e magari è solo il suo carattere insinuante a renderci inquieti: non prendiamola sul personale, vien da pensare, quando ci dice come dobbiamo scrivere, quando ci sommerge d’immagini alle quali ci reputa sensibili, quando indovina il nostro prossimo desiderio prima che ne abbiamo coscienza. Alla fine, ha ragione l’empatica Zora, come il replicante di Blade Runner, così dolente per “tutti questi momenti che andranno perduti nel tempo con le lacrime nella pioggia”? Hanno ragione loro a chiederci ad includerli nella nostra realtà, nel nostro presente e nel nostro futuro, come in un abbraccio che servirà solo a rendere infiniti i nostri orizzonti?
Molte domande, una sola certezza. La verità è che l’intelligenza artificiale ci tocca nell’intimo, gioca a scacchi con la nostra anima, come riecheggia nelle angosciate domande che si pongono gli scrittori di Hollywood: che gusti ha l’Intelligenza artificiale, li sente gli odori, ha un vissuto? Ha esperienza di dolori e di passioni da trasferire sulla pagina scritta? Può davvero mutarsi in arte, che è il nostro specchio, lo specchio di noi umani?
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