Darren Aronofsky descrive il suo viaggio verso la creazione del primo film per lo Sphere di Las Vegas

Postcard from Earth ha debuttato venerdì 6 ottobre nella nuova arena di intrattenimento, inaugurato la settimana precedente con la residency degli U2

Dopo l’entusiasmante inaugurazione dello Sphere il 29 settembre con la residency degli U2, venerdì 6 ottobre il progetto immersivo del regista Darren Aronofsky, Postcard from Earth, è stato il primo film ad essere proiettato in anteprima nel nuovo teatro di Las Vegas. Una sorta di narrazione e di documentario, che immerge lo spettatore in una serie di esperienze, facendolo sentire come se stesse camminando accanto agli elefanti in un safari, nuotando con gli squali sotto la superficie dell’oceano o guardando la Terra da un pianeta lontano.

Il film dimostra il potenziale per i registi. “Sto ancora elaborando il tutto”, dice il regista candidato all’Oscar per Il cigno nero a The Hollywood Reporter a proposito dello Sphere, il cui interno è rivestito da un display LED da 16K di oltre 48.000 metri quadrati che si estende oltre la visione periferica degli spettatori, sopra e dietro le loro teste. Le immagini, proiettate ad alta risoluzione per creare un senso di profondità e di presenza, sono accompagnate da un nuovo e potente impianto audio beamsplitting e da funzioni 4D come il vento e i sedili aptici.

“È davvero un mezzo diverso, per la natura immersiva di tutte le immagini che si creano e per il modo in cui si traducono per lo spettatore”, dice Aronofsky, raccontando che, quando hanno iniziato a progettare il film, si sono ricordati del cortometraggio dei fratelli Lumiere del 1895 L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, noto per aver fatto trasalire il pubblico, che vedeva un treno in movimento avvicinarsi attraverso l’allora nuovo mezzo con immagini in movimento. “Questo ha in un certo senso influenzato l’apertura dello Sphere. Quel momento in cui le aspettative su ciò che si sta guardando vengono improvvisamente modificate”.

Come agli albori del cinema, il linguaggio visivo e gli strumenti di ripresa sono stati sviluppati durante la realizzazione del film. “Abbiamo iniziato con nove cineprese Red saldate insieme per cercare di ottenere la risoluzione necessaria a creare un’immagine per lo Sphere”, ricorda Aronofsky, aggiungendo che hanno ricevuto il primo prototipo della cinepresa Big Sky a 18K, inventata per creare contenuti per lo Sphere. La macchina da presa, utilizzata per la maggior parte di Postcard, si è evoluta durante la produzione, mentre “cercavamo anche di capire quale fosse il linguaggio per girare un film a 270 gradi, come far sentire il pubblico a proprio agio con la visione periferica piena di immagini”.

Il poteziale delle camere usate per Sphere

Il film, della durata di un’ora, è di fatto un avvolgente giro del mondo, aperto e chiuso da una storia ambientata nello spazio nel consueto formato cinematografico, che inizia con l’arrivo di due esseri umani su Saturno. Quando si ricordano della vita sulla Terra, le immagini si aprono per utilizzare l’intero schermo. Il direttore della fotografia Matthew Libatique, collaboratore di lunga data di Aronofsky, ha girato la storia ambientata nello spazio con una telecamera ARRI Alexa 65, mentre Andrew Shulkind, vicepresidente senior di Sphere Studios per l’acquisizione e l’innovazione, è stato il direttore della fotografia per i contenuti dello Sphere. In tutto hanno viaggiato in 26 paesi, utilizzando varie telecamere, soprattutto la Big Sky.

Aronofsky ha scoperto che con la grande tela e l’alta risoluzione che potevano mostrare, l’obiettivo era comporre inquadrature piene di dettagli intorno allo spettatore. “Abbiamo cercato di girare in molte grotte perché sapevamo che le persone avrebbero potuto guardare in alto e vedere piccoli ragni che strisciavano in cima alla grotta e tutte le altre forme di vita”, racconta il regista. Una di queste creature ha suscitato una grande reazione quando è saltata verso il pubblico. “Sapevo di voler fare delle riprese macro, perché presentarle al pubblico in 18K con quel livello di dettaglio sarebbe stato qualcosa che nessuno aveva mai visto prima”. Per fare questo, hanno arruolato un team di fotografi naturalisti.

Un’altra ripresa notevole ha coinvolto le giraffe, tra cui una che sembra sporgersi nello Sphere verso il pubblico. “L’aspetto interessante è che la parte anteriore della telecamera Big Sky è un grande pezzo di vetro. Quindi ci sono molti riflessi. Così la giraffa pensava di vedere una giraffa ed è molto confusa”, racconta Aronofsky. “Ci siamo allontanati e abbiamo lasciato la macchina da presa lì fuori e l’abbiamo manovrata da lontano, in modo che gli animali si sentissero a loro agio a girarle intorno. E quello è stato solo un caso fortunato, che si presenta quando si ha abbastanza tempo e si lavora con i migliori fotografi naturalisti del mondo”.

Tra le scene più belle c’è anche quella di un elefante che cammina vicino al pubblico, realizzata dal fotografo naturalista Graham Booth (che aveva già lavorato in One Strange Rock: Pianeta Terra di Aronofsky) e da Shulkind. “C’è qualche trucco che non voglio svelare, ma l’elefante ha rischiato di calpestare una telecamera da un milione di dollari”, ammette Aronofsky.

Portare Postcard allo Sphere (che ha una capienza di 20.000 posti, ma le proiezioni di Postcard non utilizzeranno tutti i posti a sedere) ha comportato anche un programma di produzione serrato con un alto grado di inventiva, compreso lo sviluppo di un complesso flusso di lavoro di produzione e postproduzione, nuove tecnologie e processi per tutto, dalla revisione del lavoro allo spostamento di enormi quantità di dati fuori dalla macchina da presa e attraverso la postproduzione. Aronofsky riferisce che il film ha utilizzato ben mezzo petabyte di dati.

Il team di lavoro di Darren Aronofsky

Jennifer Lame, montatrice di Oppenheimer, è stata assunta per il montaggio del film, che è stato effettuato con Avid Media Composer. Un programma di realtà virtuale di recente sviluppo le ha permesso di rivedere i tagli in quello che potrebbe sembrare lo Sphere (hanno anche testato i tagli nel Big Dome degli Sphere Studios di Burbank, grande un quarto). Industrial Light and Magic e Digital Domain hanno fornito gli effetti visivi per il progetto. Ma Aronofsky, Lame e il team non hanno potuto vedere il film nell’ambiente effettivo dello Sphere fino all’inizio di settembre, cosa che ha messo ulteriormente a dura prova la post-produzione.

Tim Stipan, colorista di Picture Shop (The Whale di Aronofsky), ha effettuato il grading del film, mentre Craig Hennigan, collaboratore di lunga data del regista, ha svolto il ruolo di supervisore del suono, designer e mixer delle riregistrazioni. “Tim ha dovuto davvero capire come cronometrare queste immagini. Nessuno aveva mai cronometrato un’immagine a 18K prima d’ora”, dice Aronofsky.

“Lo stesso vale per il suono. Essendo l’immagine a 270 gradi, vuoi che i suoni siano al posto giusto. Ma non è possibile mixare il tutto su un normale schermo cinematografico perché non si sa esattamente dove sta accadendo quella cosa. Quindi abbiamo dovuto tirare a indovinare e fare del nostro meglio, poi siamo entrati nello Sphere e il team MSG ha capito come potevamo usare quel grande schermo per mixare effettivamente il film”.

Per Stipan, il team ha installato un sistema di color grading Baselight in una stanza dello Sphere, in modo che potesse lavorare nell’ambiente reale (il produttore di Baselight, Filmlight, ha scritto un nuovo software per supportare i contenuti per lo Sphere). Nel frattempo, Hennigan ha iniziato a creare un mix Dolby Atmos e ha lavorato da lì.

Shulkind – che collabora con Sphere da quasi quattro anni ed è stato determinante nello sviluppo della telecamera Big Sky e del flusso di lavoro per i registi – ricorda di aver lavorato nel teatro di Las Vegas durante il mese di settembre. Avevano a disposizione alcune ore ogni mattina per controllare il montaggio, il timing dei colori e il suono, e poi lavoravano fino a mezzanotte ogni giorno mentre gli U2 provavano e la troupe dava gli ultimi ritocchi al teatro.

Questo ha comportato anche il collaudo e la preparazione degli elementi finali, come il vento, che provengono dalla parte anteriore dell’arena. “Ci vogliono circa 30 secondi perché un po’ di vento ti colpisca, e quindi abbiamo dovuto stabilire il momento in cui il vento arriva alla prima e all’ultima fila”, spiega. “Hanno messo questi bicchieri di plastica con degli orpelli sopra, in modo da poter monitorare quando le diverse zone lo ricevevano. È stato un mese difficile”.

Traduzione di Nadia Cazzaniga