In Italia si parla poco di effetti visivi e Victor Pérez, egoisticamente, vorrebbe vedere questa industria crescere. Il regista ed effettista 42enne è originario di Lucena, in Spagna, ma da tanti anni vive in Italia. La sua storia è da film, e la sua carriera una parabola ascendente. Sfollato dopo il tragico terremoto del 2009 a L’Aquila, si trasferisce prima a Londra e poi in Canada, collabora a Harry Potter e a Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan. Adesso è al lavoro sul nuovo film di Gabriele Salvatores, una sceneggiatura di Fellini nella New York degli anni ’40, ma insegue tanti progetti personali, soprattutto uno: l’ambizione da regista e l’esordio nel lungometraggio.
Al Comicon il 1° maggio terrà una masterclass sugli effetti visivi curata dal MIA (il Mercato Internazionale dell’ Audiovisivo di Roma), in cui si offrirà come mentore a chi verrà ad ascoltarlo – una figura, quella del “tutor”, secondo lui più utile delle accademie e delle istituzioni.
Spesso gli effetti visivi sono sottovalutati: qui al Comicon invece si parla del suo lavoro.
La cosa più bella del mio lavoro è quando non si vede. Il complimento peggiore che possano farmi è: “Che begli effetti”. Gli effetti si vedono solo quando sono fatti male: quando sono fatti bene non si dovrebbero notare. Per questo sono contento quando in occasioni pubbliche, come le masterclass, posso spiegare: “Vedete questo? L’ha fatto il computer”. È là che arriva il fattore “Wow”.
Quale la differenza nel lavoro su progetti come Batman, Harry Potter e Star Wars, e quello con Gabriele Salvatores, che ha un’artigianalità diversa?
È tutto nella pianificazione. Quando hai a che fare con strutture molto grandi, devi avere tutto perfettamente “millimetrato”. Se sbagli e sfori dell’un percento delle risorse, devi sapere che l’uno per cento di cento milioni sono tanti soldi. L’un percento di un milione è più “trascurabile”.
La prima volta che ho lavorato con Gabriele mi sono divertito molto, per me è stata un’esperienza aliena. Vengo da un altro mondo. Ma mi piace, è un regista fluido. Si permette la libertà di cambiare le cose all’ultimo momento, o anche di “ascoltare” la situazione e di trarne ispirazione per idee nuove. Nelle super strutture il film si fa totalmente in pre-produzione: è una macchina molto più complessa. Se fallisce un pezzo, fallisce la macchina intera. Con Salvatores la macchina è più semplice, ma devi riuscire comunque a raccontare la storia.
Nel mio lavoro tutto ciò che non contribuisce in modo decisivo a alla storia, devi toglierlo. Non c’è spazio per il “mettiamolo perché è figo”. Tanti registi che passano dal disporre di un budget piccolo a uno grande, si perdono perché non sanno sfruttare le risorse. E lo stesso al contrario.
Con Gabriele mi trovo bene, perché mi piace la sfida. Le risorse che abbiamo per questo nuovo film non sono poche, ma non stiamo parlando dei budget di Harry Potter. A me piace essere pronto al piano A, B e C. È molto stimolante.
Salvatores farà un altro film di supereroi?
No. Iniziamo a girare il 15 maggio. Stiamo facendo un film ambientato nel ’49 a New York su una sceneggiatura incompleta di Fellini, ritrovata di recente. Gabriele ha finito il copione, è una storia molto bella, molto felliniana e, allo stesso tempo, molto di Gabriele. Mi tocca ricostruire New York nel ’49. Impresa difficile, perché non si gira nemmeno a New York.
Cosa ne pensa degli effetti speciali realizzati principalmente al computer? Gli animatronic del primo capitolo di Jurassic Park sembravano più reali rispetto agli ultimi, realizzati con la computer grafica.
Prima di tutto dobbiamo distinguere tra due tipi di effetti. Quelli speciali, realizzati davanti alla camera, e quelli visivi, che si fanno in post-produzione. Io mi occupo di effetti visivi, ma a volte ho a che fare anche con gli effetti speciali. La questione degli “effettacci” è semplice, e l’esempio calza a pennello: com’è possibile che gli effetti visivi dell’ultimo Jurassic World si vedano, mentre non si vedono quelli del film di Steven Spielberg del ’93?
La risposta sta in una regola fondamentale: gli effetti dipendono dalla storia. Se la storia non ha un senso logico, l’effetto è straniante. In un film come Transformers, ad esempio, per quanto possa essere ben realizzato, è evidente che ciò che vediamo sullo schermo non sia reale: la famosa sospensione dell’incredulità è faticosa da superare, consciamente e inconsciamente. E quando gli effetti sono così eclatanti, è difficile raggiungerla. Tranne nel caso in cui la storia ti coinvolga talmente tanto che, anche se gli effetti creano situazioni al limite del credibile, li accetti. È il caso di Harry Potter o Il cavaliere oscuro. Sono entrambi film cui ho lavorato, con effetti al limite, ma fotorealistici: in una parola credibili. Il problema con gli effetti è che è la storia, a volte, a non essere credibile.
Se guardi Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, vedi un Indiana Jones che sembra Superman. Fa cose che non sono credibili. Registi come Spielberg hanno lavorato sin dall’inizio con l’effettistica: fin dai tempi de Lo Squalo dimostrò di essere molto consapevole dell’uso che stava facendo dell’animatronica. Capì subito la cosa più importante, cioè che meno fai vedere il mostro, e più fa paura. Che poi, in realtà, fu costretto a farlo: in sceneggiatura lo squalo si doveva vedere molto di più, ma si era rotto, e dunque poteva utilizzarlo pochissimo.
Quanto è importante il suo lavoro nella riuscita di un film?
Secondo Spielberg il film “si fa” per il 50% nella testa del pubblico. Oggi, soprattutto per colpa di registi un po’ pigri, non lasciamo più tanto spazio all’immaginazione della gente. Come se il pubblico non dovesse pensare. Ma così si perde la magia del cinema. Per me, invece, è importante tanto quello che vedi, quanto quello che non vedi.
Ci sono tanti mezzi per fare tante cose, e quindi facciamo tutto. Non va bene. Se volessimo raccontare l’intera vita di un personaggio, non è detto che un’opera di dodici ore sia più interessante di un film di due ore, solo perché mostra “di più”. La cosa più “figa” del Joker di Nolan è proprio questa: non sai niente di lui. Il pubblico interpreta come vuole gli indizi. Quel che non riesci a capire, ma che vuoi sapere, te lo cerchi.
In Jurassic Park sono riusciti a mescolare effetti pratici e visivi. Il cervello si ubriaca, non si riuscendo a distinguere cosa sia vero da cosa non lo è. Quel film è una masterclass di visual effects. Ha trent’anni, ma regge ancora alla grande. Me lo sono visto pochi giorni fa. La storia non deve essere al servizio degli effetti, come accade, per esempio, in Fast&Furious.
C’è un effetto visivo che le toglie il sonno?
Non c’è niente che non si possa fare. Sarò brutale: è tutta una questione di soldi. Mi fanno paura gli effetti che coinvolgono attori digitali. L’ho fatto con Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, con Gabriele. Non si era mai tentata una cosa del genere in un film “indipendente”. Siamo riusciti a ricreare non solo una persona digitale, ma tutto un primo piano con l’ambiente. Integralmente al computer. Il giorno della première a Roma, sono andato a cena con Gabriele e mi ha detto: “pensavo che questa inquadratura sarebbe venuta una cagata pazzesca, e invece la gente mi chiedeva se il furgone fosse fatto al computer”. Solo il furgone? Era tutto ricostruito, anche Trieste. Per fare quell’inquadratura ci sono voluti 19 mesi di lavoro. Ci hanno lavorato sette persone. Quindi non è tanto importante il budget, ma il mindset.
La richiesta più folle che le è stata fatta? Da Christopher Nolan, immagino.
Chris ha un mindset molto chiaro. A lui non piacciono gli effetti visivi, dice sempre: “Se si può girare qualcosa, perché farla al computer?”. Ed è giusto, quando hai i suoi budget. Nella scena del tir rovesciato per le strade di Chiacago, ha usato gli effetti solo per eliminare dall’immagine i pistoni idraulici usati per ribaltare il camion. Per lui gli effetti visivi servono a togliere: un approccio molto simile a quello di Salvatores. A Gabriele non piace visualizzare cose fatte al computer. Preferisce vedere le cose sul set, e poi togliere ciò che lo infastidisce. Se si può fare dal vero lo si fa. Gli effetti visivi si usano per ciò che implica questioni di sicurezza, o che può mettere a rischio la vita di qualcuno.
Un’inquadratura ne Il cavaliere oscuro – quella in cui Batman si butta da un tetto a Hong Kong, atterrando su un altro edificio in volo – Nolan voleva farla con gli elicotteri. Gli hanno detto che avrebbe messo a rischio la vita dei piloti, e meno male che Hong Kong non gli ha concesso l’autorizzazione. Alla fine l’abbiamo realizzata con gli effetti. La sequenza è venuta molto bene: il 90% delle inquadrature in cui si vede Batman è fatta al computer, non solo quando vola ma anche quando cammina. Nessuno se ne è accorto. Da quel momento Nolan ha cominciato a credere di più nei visual effects, tanto che in Interstellar ne ha fatto grande uso.
È sempre riuscito ad esaudire i desideri dei registi?
Penso di sì. Perché alla fine si trova sempre il modo. Per tornare a Salvatores, alla famosa inquadratura del furgone, io mi ricordo di tante riunioni di produzione in cui si pensava di comprare due furgoni. Non si era mai provato prima una cosa del genere nel cinema italiano.
Per studiare quell’inquadratura ci abbiamo messo due anni, insieme ad altre 520 inquadrature del film alle quali abbiamo lavorato in parallelo. Non l’avevo mai fatto, l’ho fatto per lui. È stata l’inquadratura, a livello di gestione, più difficile. Perché avevo poche risorse e il lavoro era molto complesso. Alla fine il mio team è riuscito a farla, ma ho avuto delle discussioni molto accese con la produzione. È più difficile quando le persone con cui stai lavorando non hanno esperienza con gli effetti visivi. Quando sono arrivato in Italia, nessuno credeva al mio modo di lavorare. Mi hanno anche detto: “Fai gli effetti con il tuo portatile?”.
Ha una storia da film. È vero che i suoi compagni del Centro Sperimentale de L’Aquila hanno fatto una colletta per permetterle di studiare a Londra?
Non è andata esattamente così. Io non ho studiato al Centro Sperimentale, ma all’accademia di Vittorio Storaro, e non ho mai finito. Mi hanno poi dato il titolo ad honorem. Avevo invitato a L’Aquila un mio amico, che avevo conosciuto quando studiavo visual effects negli Stati Uniti. Lui è di Trento, ci siamo conosciuti a Boston. Non era mai venuto a trovarmi e la prima volta che lo fece fu proprio il giorno del terremoto. Quella notte ho perso la casa, che è crollata dietro di noi mentre uscivamo. Un macello. E non era un effetto visivo.
Quando è tornato a Trento, fece un annuncio su l’Adige perché mi aiutassero. Non avevo più nulla. La gente, anche persone che non mi conoscevano, ha fatto delle donazioni. Così sono riuscito ad andare a Londra, dove ho vissuto nella cucina di un’amica brasiliana. In pochi mesi sono passato dall’essere uno sconosciuto a diventare il direttore tecnico dello studio in cui lavoravo. Poi ho fatto Harry Potter, mi sono trasferito in Canada, sono tornato, ed è arrivato Nolan, Star Wars. È un settore molto meritocratico, almeno ai livelli più alti: se vali, vali. Avevo bisogno di pagare le bollette e di dimostrare le mie qualità. Non avevo alternative.
Ha girato due cortometraggi, ha ambizioni da regista: potrebbe fare un film sul terremoto.
Non posso fare spoiler, ma ci sarà qualcosa del genere nel prossimo film di Salvatores.
Cosa consiglierebbe a una persona che volesse avvicinarsi agli effetti visivi?
Trovate un mentore. Ognuno di noi deve averne uno. Il problema della democratizzazione, è che si democratizza anche la merda. Non so come dirlo altrimenti. Ci sono tanti artistoidi, persone che sanno fare due o tre cose. Mio padre lo diceva sempre: se puoi fare qualcos’altro, fai qualcos’altro. Se veramente non puoi farlo, allora fai l’artista. Uno deve fare l’artista perché veramente ha il bisogno fisiologico di fare l’artista. E se è così, devi dedicarti anima e corpo alla tua arte, altrimenti fai solo danni.
Per quanto riguarda gli effetti visivi, spesso per abbassare il prezzo si cerca manodopera economica. E una manodopera economica è fatta di professionisti mediocri. Quando vado a lavorare non mi interessa il nome della società, se sia grande o piccola, o se abbia vinto uno o più Oscar. Io voglio sapere quali persone faranno parte del mio team. Me li studio, uno per uno.
Il consiglio che darei è: non credere alle istituzioni. Le istituzioni non insegnano. Insegnano i professori e bisogna documentarsi su di loro, fare lavoro di ricerca. A volte la gente mi dice dove ha studiato, e i soldi che ha speso, e c’è da piangere. Paghi cifre pazzesche e non ti rimane niente. Devi trovare qualcuno che sa fare il lavoro, che ti voglia bene, e che abbia la volontà di insegnartelo.
Nel suo lungometraggio d’esordio ci saranno effetti visivi?
Il mio primo corto è un dramma. Ci sono un paio di effetti, ma invisibili. Non ce n’era bisogno. Per il mio secondo cortometraggio, invece, ho dovuto sviluppare una tecnologia che non esisteva, grazie alla quale sono stato nominato, insieme a Spielberg, ai Visual Effect Society Awards. Ora sto preparando un lungometraggio che si chiama Ensemble: un cyberpunk sulla musica classica. Ci sono tanti effetti. Ma sono un elemento in più. Non sovrastano la storia: non voglio fare l’ennesima cosa bella che non racconta niente. Se voglio vedere qualcosa di “bello”, me ne vado alla National Gallery e mi godo un Caravaggio. La bellezza sta nel fare cose che hanno senso.
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