C’è un albero di Natale che non porta doni nel cinema italiano. Tutti sanno com’è fatto e nessuno ne parla.
Quello che leggerete è il frutto di chiacchierate coperte da anonimato (anche se, è necessario dirlo, il velo andrà strappato se si vuole cambiare qualcosa e magari iniziare un’inchiesta puntuale in giro per l’Italia) e visite in sale apparentemente in salute e segretamente in crisi. Ora tenute su dal fenomeno Barbie/Oppenheimer, anche qui nel Bel Paese dove sono stati divisi.
Ne è uscito lo sguardo su un sistema che tra storture di mercato, una zona grigia che sfiora l’illiceità, troppe curve a gomito sta strozzando il cinema in sala. Nasce tutto da un nostro grido di dolore per la chiusura della storica multisala di Milano, l’Odeon, dal primo agosto scorso. Siamo stati chiamati da alcuni registi, molti esercenti, pochi produttori, nessun distributore. Si può dire, poi, che molto di tutto questo nasca ancora prima, dalla polemica dei ragazzi del cinema America con i distributori italiani per la loro attività divulgativa, sfociata in un loro storico e famoso esposto all’antitrust nel 2020, risultato vittorioso. Ora sono in pace, se è vero che nel 2022, per l’egregio lavoro fatto con il Cinema Troisi, hanno vinto il biglietto d’oro consegnato da Anec (con la cui delegazione territoriale regionale, Anec Lazio, fecero polemiche ferocissime, la principale appunto legata al fatto che negassero loro i film per l’ormai manifestazione cult estiva Cinema in Piazza, fino all’annullamento di una campagna pubblicitaria da parte dell’Anec Lazio stessa all’emittente radiofonica RadioRock per il legame con il Cinema America di cui è media partner).
Nella sentenza del Tar in risposta all’esposto, ci sono tutte le contraddizioni di un sistema, tutte le problematiche che ora vediamo minare il cinema in sala. E che va ben oltre allo strapotere dello streaming o altri capri espiatori chiamati in causa da anni, perché proprio Cinema in Piazza dimostrava che la modalità di visione pubblica e collettiva, se resa evento unico e di condivisione culturale ed emotiva, riusciva ad essere vincente e ancora centrale. In quella sentenza, Anec e Anec Lazio, trovavano le loro azioni etichettate come “boicottaggio messo in atto trasversalmente”.
Quella parola, boicottaggio, è centrale. Non tanto e non solo perché in quel caso arrivò dalle associazioni di categoria, rendendo il tutto più grave e codificato, ma perché è il caposaldo di un sistema, soprattutto nella sua struttura più parcellizzata. Veti incrociati, controllati e controllanti e controllandi che quando non sono la stessa persona, si parlano e si alleano tranquillamente, esercenti che come gli edicolanti nell’editoria si trovano ad essere soggetti passivi e danneggiati di un sistema che si spartisce briciole e potere ora che sono pochissime le une e l’altro, comportandosi come se invece si fosse ai tempi d’oro.
Nord Est, la prima tappa del viaggio nella sala cinematografica
Il primo viaggio per capire questo disagio endemico lo abbiamo fatto nel Nord Est, tra multisale che rischiano la chiusura e altre realtà più protette, ma altrettanto in difficoltà. Quella che segue è come l’introduzione di un libro (purtroppo) nero sull’esercizio e la distribuzione cinematografica italiana. Proveremo a dipingere il quadro, poi proveremo a scovare pennelli e pittori. Lo facciamo unendo in un solo ideale gestore di cinema le testimonianze di tre persone che hanno chiesto di mantenere anonime le proprie generalità.
“Noi esercenti abbiamo le mani legate. Lo zoccolo duro del pubblico di questa multisala mi conosce da tempo, anche per alcune arene estive, non sono un esercente improvvisato come ce ne sono sempre più ultimamente, sono appassionato di cinema e ho sempre provato a dare una direzione insieme culturale e commerciale, come potremmo definirla, una linea editoriale ai miei schermi”. Occhiali da sole, la giornata è calda e siamo fuori dalla sua struttura, non ancora aperta. Ci ha chiesto di non renderlo riconoscibile – “mi sembra che nessuno parli di tutto questo e un motivo ci sarà” – ma possiamo dire che a giudicare anche da manifesti e testimonianze che troviamo ad arredare corridoi e ambienti, oltre che spulciando le programmazioni degli ultimi anni, lo sforzo sia reale e concreto anche adesso. “Sì, ma ora, più degli scorsi anni, è uno slalom speciale”. Per chi non lo sapesse, è quella specialità dello sci alpino in cui con abilità, velocità e prestanza atletica lo sciatore evita dei bastoni, degli ostacoli, sempre più ravvicinati e complessi, fino a un traguardo in cui di solito ci si butta quasi a peso morto. Non male come metafora.
Inizia un lungo monologo in cui con l’aiuto di un pacchetto di sigarette, un bicchiere e delle matite prova a descrivere, l’esercente, l’albero di Natale del capitalismo cinematografico. “Voi pensate che noi abbiamo a disposizione tutti i film in uscita e possiamo scegliere liberamente la nostra programmazione in base a disponibilità economiche e gusto personale? Poveri illusi. Non era così un tempo, non lo è ora. Solo che è tutto peggiorato”.
L’albero di Natale del cinema italiano
L’albero di Natale, a descriverlo, è semplice: produttore, distributore, agente, esercente. Persino, guardandolo superficialmente, snello e probabilmente efficiente. Ognuno, ovviamente, vuole la sua parte “e così come vedi chiudere le edicole, a cui quasi non conviene vendere un quotidiano da cui guadagnano neanche 10 centesimi, vedi chiudere le sale. Ci trattano come dei bar, ma magari si vendessero giornali o biglietti cinematografici come caffè. E con lo stesso sistema concorrenziale”.
La produzione cerca una società indipendente di distribuzione (quando non si fa carico lei del compito), che convincerà gli esercenti attraverso il lavoro di agenti divisi per territorio. “E che si fanno la guerra. Con noi come vittime civili”. Il punto è uno, quando gli agenti non sono a loro volta esercenti – o lo sono distributori o addirittura produttori -, comunque vestono una casacca. E se ti servi da loro, automaticamente il loro concorrente invece di cercare una concorrenza sulla base della qualità, pone il veto e ti proibisce di servirti presso di lui. Così l’esercente, a scatola chiusa o quasi, si trova a dover rinunciare a una fetta di mercato e allo stesso tempo a subire le condizioni del prescelto che può rifilarti titoli debolissimi nel caso tu voglia il blockbuster che gestisce. “Intendiamoci, gli americani qui in Italia lo hanno sempre fatto: volevi il supereroe? Dovevi prenderti anche il pacchetto di quattro uscite tecniche. Ma non ti strozzavano tutta la stagione, ne appaltavano una parte. Di storture in questo settore ce ne sono state sempre parecchie, soprattutto da quando è diminuita la tenitura (il tempo di permanenza di un titolo in una sala) e non ci sono più le sale di seconda o terza visione, di fatto ormai sostituite dalle arene, se va bene. Ti faccio un esempio: un tempo dopo un tot di biglietti venduti in sala, scattava automatica l’acquisizione di diritti televisivi. Un’entrata importante per il film, che poteva valere il comprare centinaia o migliaia di biglietti per arrivarci. E il produttore apriva il portafoglio per arrivare a quel numero. Poi magari le sale erano vuote”. Un sistema che quasi si è rovesciato con il tax credit di distribuzione. Il tax credit, come è noto, è un meccanismo di compensazione dei debiti fiscali e previdenziali delle imprese, calcolato in base alle spese sostenute per lo sviluppo, la produzione, la distribuzione e altre attività legate al settore audiovisivo. E nel bene e nel male – e in tutte le sue successive modifiche, migliorative (norme di controllo più stringenti) e peggiorative (soprattutto nei riguardi di piccole distribuzioni indipendenti, praticamente tagliate fuori) – è the last big thing della legislatura italiana cinematografica, quella che più è intervenuta a livello sistemico cambiando in parte la fisionomia del mercato.
Il Tax Credit di distribuzione, il segreto di Pulcinella
Ecco, quello di distribuzione “coinvolge anche noi. Intendiamoci, non voglio demonizzare lo strumento: quello relativo alle sale, al miglioramento e all’innovazione degli ambienti, per esempio, è tra le poche cose buone che ci è arrivato dal pubblico in questi anni, altro che i biglietti ridotti, un boomerang clamoroso. Uno strumento che sia pur troppo timido, abbiamo apprezzato. Ma se vi chiedete perché in alcune date c’è un ingorgo di uscite è spesso perché stanno scadendo quei benefici. Oppure”. Oppure c’è dell’altro.
Si sistema gli occhiali, si fa più nervoso. “Diciamo che voi nelle conferenze stampa vi ritrovate distributori che annunciano 30 copie di un film piccolo o medio. E poi fate la media. E dite: ok, è un piccolo film, ma anche lì dove è distribuito va malissimo, il cinema italiano non piace quasi mai al pubblico”. È una delle vulgata più frequenti, quasi un modo di dire. Non c’è cena in cui, sapendo che sei un giornalista cinematografico, qualcuno non ti dica orgoglioso “io il cinema italiano non lo guardo”. Così, per partito preso. “E tanto non lo vedrebbero comunque. E mica solo quello. Perché quel credito d’imposta che va dal 15 al 30% ma se è la produzione stessa a prenderlo, arriva fino al 40%, diventa soldi freschi se lo sfrutti sistematicamente. E chiami un esercente, giochi un po’ con le fatture, e ti ritrovi quel film in una proiezione alle 14.30 in provincia, in una alle 16 in un multisala poco fuori città, e così via, in una alle 12 nella grande catena di esercizio che si è installata nel centro commerciale. Ottemperi alle richieste minime di legge e nel migliore dei casi ti ripaghi le spese indipendentemente dallo sbigliettamento”. Che poi è quello che fanno molti produttori italiani. “Se tutta la filiera si mette a protezione del proprio investimento e rientra, se non guadagna, un giorno prima dell’uscita del film, chi ha interesse che guadagni l’esercente che diventa l’unico a essere interessato al successo di pubblico dell’opera? E così alcuni di noi, facendo piccoli patti col diavolo, si tutelano. Magari con qualche piccolo passaggio di soldi in nero. O in grigio”. Che è sempre più elegante. E quel “piccolo” dice molto dello stato di salute molto precario di un settore.
“Non riesco a pensare che sbaglino. Immagina poi se in questa filiera, non ci sia bisogno di chiamare l’esercente, o il distributore, o il produttore. O l’agente. Perché sono la stessa persona, o ricoprono almeno due o tre ruoli del famoso albero e gli altri sono funzionali a lui. Ce n’è uno che in una regione del sud fa l’en plein“.
Insomma, la sala è in crisi. Ma non tanto, e non solo perché ci sono alternative più comode e ormai di qualità di offerta, tecnica e artistica, equivalente. Ma perché c’è una visione predatoria che assomiglia a tanto capitalismo assistenzialista italiano che non mette al centro il mercato, il successo del prodotto, ma il rientro dell’investimento prima che si presenti il rischio.
“Lo vedi quel libraio? Si lamenta che ci sono solo due grandi distributori nel suo settore. Che è un oligopolio strozzino quello a cui sottostanno, che i costi di magazzino per gli editori sono eccessivi e che di fatto il loro sistema penalizza solo chi si sforza di guadagnarci. Ha ragione, ma almeno lui può decidere davvero quali libri prendere e quanti. Farsi convincere dai titoli, dalla quarta di copertina. A noi ci invitano due volte l’anno a vedere pezzi di film, trailer, a parlare di ciò che distribuiranno. Poi, tanto, sai che a certi tavoli non ti siederai mai. Lui, invece, può scegliere. Magari non vende, ma lo sfizio se lo toglie. Senza ritorsioni. Un po’ lo invidio”.
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