Un giovedì sera qualunque. In prima fila ad assistere alla conversazione tra Grazia D’Annunzio – ex Vogue Italia – e Alba Clemente – attrice, musa, icona di stile, artista e paroliera di successo per i Pink Martini – c’è un parterre mica male: il marito artista Francesco Clemente, le figlie Chiara e Nina, ma anche Nancy Olnick e Giorgio Spanu, fondatori di Magazzino Italian Art e la mitica Fran Lebowitz, guarda caso appena tornata proprio dall’Italia. Qualche fila più indietro ci sono Marina Sagona, anche lei artista, e Stefano Tonchi – ex direttore del magazine T del New York Times e della rivista W – seduto accanto a Sally Fischer, dell’omonima agenzia di pr. I cento posti del teatro sono tutti occupati, l’atmosfera è perfetta, quel misto generazionale e culturale che si respira solo qui alla Casa Italiana Zerilli-Marimò, la sede ufficiosa della comunità italiana che a New York vive, consuma, lavora nella e per la cultura. Fondata nel 1990, questa stupenda palazzina a due passi da Washington Square, nel cuore del Village – ormai quartiere di celebrity e miliardari, ma pur sempre con un’attitudine bohemien – è la sede del Dipartimento di Studi Italiani della New York University, ma è soprattutto la rappresentazione fisica della visione della Baronessa Mariuccia Zerilli-Marimò, il personaggio italiano probabilmente più importante della Grande Mela.
“Trustee” a vita della New York University e della Morgan Library (unica personalità italiana in tutti gli Usa a potersi fregiare di questi titoli), membro dei più importanti boards italiani ed italoamericani, Living Landmark della Città di New York, Patron della Metropolitan House, dama dell’Ordine di Malta, dama dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio e di quello di San Maurizio e Lazzaro, collaboratrice per anni della Missione del Vaticano alle Nazioni Unite, Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana e amica personale del Presidente Giorgio Napolitano, la baronessa ha una vita da romanzo. “Anzi, di vite ne ha tre”, come ama ripetere l’attuale direttore della Casa Italiana, Stefano Albertini Mussini.
La prima è quella di lei bambina a Milano, negli anni della guerra. Nata nel 1926 da un padre che non si è mai voluto iscrivere al partito fascista, Mariuccia assiste alle leggi razziali prima, ai bombardamenti dopo, con tutto quello che la guerra si porta in mezzo: fame, miseria, distruzione. La seconda vita è quella di una giovane donna socialmente in vista nell’Italia della ricostruzione (partecipa alla riapertura della Scala, vestita di bianco e blu), in un paese finalmente inondato da energie positive e voglia di fare, inventare, costruire. In questa fase l’incontro fondamentale è quello con il Barone Guido Zerilli-Marimò, noto industriale farmaceutico della Lepetit, uomo di grande cultura e di grandi visioni. Sono gli anni che Mariuccia trascorre all’ombra dell’importante marito, sempre un passo indietro, girando il mondo, incontrando ministri, capi di stato, ambasciatori (su Google una delle foto che più appare di Guido è quella con il presidente Richard Nixon). Sono anche gli anni dei primi viaggi a New York – alcuni dei quali sulla Andrea Doria – e dell’innamoramento per la città e la sua vita culturale. “Se avesse potuto, sarebbe andata a teatro tutte le sere”, ricorda Albertini.
La terza vita è quella da mecenate: la morte di Guido è un brutto colpo, per due anni “sono stata uno zombie, non mi alzavo dal letto” fino a quando, nel 1988, ha l’idea, nata da un’osservazione: come mai a New York esistono la “casa” francese e tedesca, ma quella italiana no? Un omaggio eterno alla memoria dell’amato marito: è così che Mariuccia pensa alla fondazione della Casa Italiana, il luogo dove la cultura del nostro paese possa venire insegnata e celebrata. Trova l’edificio – una palazzina al numero 24 della decima strada – lo acquista e lo dona alla NYU, non prima di aver seguito personalmente il restauro, contribuendo a scelte stilistiche come il marmo bianco e verde del pavimento dell’ingresso e il grande tavolo di legno che era la scrivania del marito. “Per comprarla vendetti il nostro appartamento milanese di Gio Ponti”, racconta la baronessa nel documentario Beyond The Walls. “Ma non me ne sono mai pentita”.
La Casa Italiana Zerilli-Marimò sarà inaugurata nel 1990, dopo due anni di lavori, alla presenza di Giulio Andreotti, amico di famiglia. Da allora è diventata il luogo di transito e di incrocio non solo della cultura italiana, ma anche di quella italo-americana. “Uno dei meriti della baronessa è stato proprio questo”, ricorda Albertini, direttore dal 1998, che con lei ha lavorato fino alla sua morte, nel 2015. “Aver capito che, invece che essere snobbata, la cultura italo-americana andava inglobata e celebrata insieme a quella italiana. L’altro merito è quello di essere stata sempre aperta a tutto, attenta alla diversità in un periodo in cui non era di moda, senza mai imporre o censurare niente o nessuno”.
Non si definiva una femminista, ma in fondo lo è stata, spesso l’unica donna in situazioni di soli uomini. Narra la leggenda che dopo il discorso alla Casa di un politico italiano di estrema sinistra, seguito dalla baronessa con molta attenzione, si fosse prodigata in complimenti. “È veramente brillante, ha le doti retoriche di un tribuno romano e un’ottima preparazione”, salvo poi chiosare con un “e per questo è molto pericoloso”.
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