La vicenda di Arisa, che era in parola per essere presente ai Pride di Roma e Milano, che si sente di rinunciare dopo le proteste della comunità LGBTQ+ in seguito alle sue dichiarazioni di stima nei confronti della premier Giorgia Meloni – definita una madre preoccupata – senza prendere le distanze dalle sue idee omofobe e dalle sue politiche discriminatorie nei confronti delle famiglie arcobaleno, hanno mostrato la grande debolezza di una certa costruzione mediatica dell’attivismo fatto di volti noti acchiappa-like, di slogan facili e semplicistici.
“Io sono per l’amore”, gridato dai carri delle parate da alcune celebrità è forse peggio della pace del mondo che sognavano le aspiranti Miss Italia. Questa storia è anche un’occasione però per ricordarci di quando gli organizzatori hanno creduto che un Pride avesse bisogno di una madrina e perché.
Il caso di Milano
Partiamo dagli inizi. Siamo negli Stati Uniti, e se l’omosessualità maschile è tollerata purché non esibita, quella femminile era ignorata. L’identità di genere diversa dal sesso biologico era ritenuta perversione, e mal vista anche all’interno della community, soprattutto se le persone trans erano anche di etnia non caucasica.
Ecco. Immaginate che quella donna trans picchiata dai poliziotti a Milano, anziché prendere le botte senza reagire, all’ennesima retata intimidatoria nel locale in cui si trovava – l’unico posto in cui le era permesso essere ciò che era senza avere paura – avesse preso una bottiglia per tirarla contro le forze dell’ordine, per protesta. Una donna trans afrodiscendente aggredisce un poliziotto. Pensate che titoli farebbero oggi alcuni giornali.
Tutta la liberazione Lgbtq+ comincia da lì, dal coraggio di una persona di essere scorretta e scomoda per gridare il suo diritto di esistere, la sua dignità. I moti allo Stonewall Inn sono la miccia da cui partono i cortei di liberazione, che all’inizio sono chiamati “marcia”, come quelle di Martin Luther King, e in effetti lo sono: marce pacifiche e civili per la liberazione. Non è un dettaglio da poco. La marcia pacifica prevede l’attraversamento dello spazio pubblico con i propri corpi, la richiesta del permesso alle autorità per manifestare, obbligandole a prendere una posizione. Il sindaco di Los Angeles nel 1970 dichiarò: “concedere il permesso di marciare a un gruppo di omosessuali sarebbe come concederlo a un gruppo di ladri e rapinatori”.
Over the rainbow e la marcia di Chicago
In un mondo che negava il diritto di esistere anche attraverso i simboli e gli archetipi condivisi, rigorosamente tutti binari e patriarcali, l’esibizione dell’immaginario queer con le sue icone e i suoi riferimenti era una rivendicazione necessaria in quanto culturale, a partire da quel “over the rainbow” – di quella Judy Garland che era morta da soli sei giorni quando ci furono i moti a Christopher Street nel Greenwich Village – che animò la prima marcia di liberazione che fu il 27 giugno a Chicago nel 1970.
Il festoso e danzante sfilare per le città era ed è un modo per rivendicare la gioia, l’orgoglio di essere ciò che si è. Da qui la necessità di essere sopra le righe, perché la propria voce fosse più alta del pregiudizio e potesse attirare l’attenzione di chi, eterosessuale, non si era mai posto il problema dei diritti umani negati a qualcuno nei confini stessi del suo paese, che si dichiarava democratico. Sarebbero dunque arrivati gli alleati. Persone che sceglievano di marciare accanto alla comunità aggiungendo i loro corpi e le loro storie a questa richiesta di libertà.
Da marcia a Pride
In pochi anni le marce diverranno gay pride e poi solo Pride, orgoglio di ogni diversity – che vuol dire varietà più che diversità – e si diffonderanno negli Stati Uniti e poi in Europa. In pochi anni, con il cambio generazionale, la certezza annuale della parata diventerà sempre più un’occasione per farsi vedere, e per mostrare come l’immaginario queer sia patrimonio di tutti. Essere scelti come artisti icone significa avere uno stuolo di fedeli seguaci che cantano le tue canzoni nelle loro feste, ai tuoi concerti, e nei pride appunto.
In quell’immaginario, camp, trash, kitch, preppy e molto altro, hanno sempre avuto grande spazio le donne, poiché era sotto i loro occhi, a partire dalle proprie madri, quanto fossero le prime vittime di patriarcato e machismo. Tra loro, soprattutto quelle la cui fisicità esuberante, le scelte estetiche e il carattere volitivo, rendevano modello e ispirazione, apripista dell’emancipazione, maestre del non abbassare la testa.
I tempi cambiano e anche la militanza, cha da politica cerca di diventare pop, puntando su quanto sia cool essere gayfriendly e inclusivi. Arrivano le rappresentanze delle corporazioni lavorative, e poi arrivano i grandi brand, schierati spesso davvero, spesso per interesse economico, dalla parte di un target di forti consumatori.
E qui si genera una questione non ancora risolta: la differenza tra essere una figura amata dal mondo queer, e diventarne un’icona.
Essere icone del mondo queer
Dolly Parton, Cher, Celine Dion, Madonna, Eva Peron, Elisabetta II, Bette Davis, Liz Taylor sono tutte amatissime. Ma non tutte sono legittime icone. Liz Taylor, Cindy Lauper, Madonna hanno combattuto esplicitamente per i diritti della comunità.
Nel film Quel mostro di suocera, commedia molto queer con Jennifer Lopez nei panni della futura nuora di un’insopportabile Jane Fonda che la tratta male sperando che l’amatissimo figlio la lasci, prima del lieto fine arriva la nonna paterna di lui, la suocera di Fonda. La temibilissima anziana dall’eleganza austera mette in riga quella che è la sua di nuora, invertendo improvvisamente le parti.
Il migliore amico di JLo, un ragazzo gay, dopo averla vista ristabilire la sua autorità con poche sferzanti parole, le si avvicina e le dice devoto: “Senta, io la adoro”. E lei, senza nemmeno guardarlo risponde “Maddai?”.
Ecco. Era ovvio che una personalità come quella fosse amata dal mondo queer. Ma basta un aspetto esuberante e un carattere forte per essere un’icona gay?
No, altrimenti lo sarebbe certamente, per esempio, Donna Assunta Almirante, avendo tutte le carte in regola, estetiche, fisiche e di personalità. O Imelda Marcos, o Crudelia Demon. Evidenti idole del camp, ma icone, vi prego, no.
Serve aderire a quella lotta. Fino in fondo. Non solo quando conviene a reputazione e carriera, ma anche e soprattutto quando i diritti sono minacciati o ostacolati da chi è al potere.
Dolly Parton, voce e corpo del capitalismo americano bianco e cristiano, ha preso posizione da sempre, e davanti alla sua platea fortemente repubblicana e conservatrice ha sempre rivendicato la liberazione Lgbtq+ da qualunque stigma o ossessione religiosa.
Il primo Pride nazionale a Roma (1994)
E in Italia? Sono ricorso alla memoria di Giorgio Bozzo, che ha scritto libri, commedie e televisione e ha prodotto musica contribuendo non poco alla costruzione e alla diffusione di cultura queer, che mi ha raccontato un episodio bello e ingiustamente dimenticato.
Nel 1994, il primo pride nazionale a Roma, che si sperava vedesse almeno 500 partecipanti e invece ne ebbe 10 mila, passa per le strade del centro, e verso la fine del corteo gli attivisti intravedono, seduti ai tavolini di un ristorante o di un bar, Simona Izzo e Ricky Tognazzi, e li invitano a dire qualcosa dal palco. Inutile ricordare il contributo di Tognazzi padre nel cinema, per la questione Lgbtq+. Ma sono stati loro due, registi e attori di tante vicende di amore, a parlare per primi in favore del pride.
Le loro furono probabilmente le prime parole ufficiali di artisti non attivisti ma alleati. Ed è molto probabile che da lì sia partita la ricerca, ogni anno, di nuovi testimonial, nuove madrine. Donne famose, in vista, che potessero essere un megafono. Ci sono state molte figure tra politica e spettacolo, ambiti che in Italia si sono mischiati da almeno venticinque anni, a cavalcare quei carri. Ma il successo numerico e di risonanza non sempre hanno corrisposto a reali avanzamenti dei diritti.
Il distacco dal reale è sempre dietro l’angolo, e infatti pochi ricordano che se il World Pride del 2000 sempre a Roma, fu un successo, il sindaco di allora, un presunto alleato della causa data la sua partecipazione al pride del ‘94, Francesco Rutelli, non accordò il patrocinio, forse per paura di ritorsioni clericali visto che era anche l’anno del Giubileo. A quel pride, sul trampolino del successo, Paola e Chiara prendevano una posizione netta, ribadita proprio a questo scorso pride, sempre a Roma, vent’anni dopo.
Rispolverare le radici dell’orgoglio Pride
Ecco, forse farebbe bene rispolverare le radici dell’orgoglio – anche attraverso il podcast che ha curato proprio Giorgio Bozzo e che così si intitola – e pretendere dagli artisti che vogliono mostrarsi gayfriendly almeno una coerenza da minimo sindacale, e dagli organizzatori che rinuncino a presenze imbarazzanti.
Marcella Bella, cantante amatissima dalla community con una discografia molto queer, si candidò con An, partito da sempre dichiaratamente omofobo. Come ignorarlo? Lorella Cuccarini, che sul favore della comunità LGBTQ+ ha fondato moltissimo del suo successo, si è espressa contro le famiglie arcobaleno. Come è possibile suonare le sue canzoni al pride e non offendere più di qualcuno?
Servile ruolo di ancelle
Il problema esiste in tutto il mondo. Il musical Evita scritto dal re del camp Andrew Lloyd Webber ha costruito un santino gay di Eva Peron che però poco si attaglia con la memoria della comunità queer argentina, che la ricorda come la moglie e la sostenitrice di un uomo e un partito fascisti e omofobi, per quanto lei fosse circondata da omosessuali, che però, nella storia, si sono talvolta ritagliati il servile ruolo di ancelle, consiglieri, cicisbei del potere pur di mantenere i loro privilegi.
Forse siamo tutti maturati a sufficienza da aver capito che non serve la legittimazione delle celebrità solo in quel giorno?
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