L’anello di congiunzione tra New York e tutto quello che di italiano succede in città è una signora bionda dalla risata contagiosa che parla un italiano perfetto reso ancora più adorabile da un leggero accento americano. Si chiama Sally Fischer, ha un’agenzia di pr che porta il suo nome e a Manhattan è un’istituzione. Conoscere lei significa entrare in un turbinio di prime cinematografiche, conferenze, presentazioni, seminari, dibattitti.
Un’overdose di cultura che ha come filo conduttore l’Italia, paese di cui Sally è innamorata di un amore come solo gli stranieri riescono ad avere e che a noi italiani ci fa sembrare tutti degli ingrati.
Quando le dico che vorrei scrivere di lei, mi risponde che la metto in imbarazzo. La verità è che la sua storia umana e professionale è straordinaria e merita di essere raccontata e lei è troppo modesta. Per dire: solo dopo la nostra chiacchierata, cercando in rete, ho scoperto che nel 2018 è stata insignita di una delle più alte onorificenze italiane, il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia. E lei neanche me lo aveva detto!
La sua prima volta in Italia è da ragazzina, in vacanza con la madre e il solito tour che fanno tutti gli americani: Roma, Firenze Venezia, Milano, lago di Como più qualche altra tappa. Ci ritorna a sedici anni, decisa a fare un anno di superiori a Firenze, come molti altri studenti. Finisce per restarci otto anni, si iscrive all’Università, si innamora di un italiano, vive a Firenze, impara la lingua alla perfezione.
Negli anni ’80 torna a New York perché le manca la famiglia e perché così fanno le brave ragazze. Solo che a quel punto le manca anche l’Italia e la sua vita a New York …“I was misareble”, dice testualmente. E quindi si crea una sua Italia qui.
Il suo monolocale nell’East Village diventa il punto di ritrovo di tutti gli italiani che sono a New York, stabili o di passaggio non importa. “La battuta che circolava era che il mio numero di telefono era scritto dentro alle cabine telefoniche, perché tutti sapevano chi ero e dove era casa mia e tutti gli italiani prima o poi ci passavano”, mi racconta. Sono i primi passi, i primi segni che svelano il suo talento nel connettere le persone, le situazioni, le culture, una attitudine che ha sempre avuto (“Alle superiori ero quella che organizzava gli eventi sociali di tutti”, ride).
Con prima un passaggio in Rizzoli e poi uno in Benetton (“quando Benetton era come Starbucks: c’era un negozio ad ogni angolo”), la sua carriera prende il volo fino a quando nei primi anni 90 fonda la sua agenzia, con l’obiettivo di fare appunto da ponte e da cassa di risonanza per tutto quello che riguarda l’Italia, anche e soprattutto il cinema.
Dalla sua fondazione lavora sia per Open Roads, il festival di cinema italiano contemporaneo del Lincoln Center, sia per le retrospettive del Moma, e non c’è attore o regista italiano di passaggio a Manhattan che non abbia conosciuto. “Adoro lavorare, forse è un difetto, raramente faccio vacanze vere”, mi dice raccontando anche dei due suoi due clienti americani più prestigiosi, Sting e Trudie Styler, conosciuti 25 anni fa quando hanno acquistato Il Palagio (“l’unico posto dove Sting si rilassa davvero”). Ma soprattutto Jeremy Irons, con cui è stata sul set di Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci. “Forse l’esperienza più bella della mia vita professionale”, racconta come se fosse la cosa più normale del mondo.
Oggi, la soddisfazione più grande le viene dal vedere crescere i talenti. “Ho conosciuto Alessandro Borghi e Luca Marinelli per la prima volta quando hanno portato Non essere cattivo a New York e oggi vedere il successo che hanno qui con Le otto montagne mi riempie di orgoglio”.
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