Shooting Silvio fu un caso, nel 2007. A dirigere il film Berardo Carboni, regista di talento e militante, che uccide appunto Silvio Berlusconi. Lo fa sullo schermo (forse, niente spoiler anche dopo quasi 20 anni), tramite il giovane e annoiato Kurtz, intellettuale (in)dolente che per dare un senso alla sua vita progetta di porre fine a quella dell’allora capo dell’opposizione (premier ai tempi del set del film). Un film potentissimo perché da un’intuizione geniale e provocatoria tira fuori un’opera profonda sul disagio di una generazione e di un paese, politico nel senso più ampio del termine e che utilizza il tycoon e leader non in modo strumentale, ma come icona e simbolo di un abisso morale e intellettuale.
Berardo, il primo a immaginare Berlusconi morto (o quasi) è stato lei. In realtà, gli ha allungato la vita di 17 anni
È davvero bizzarro. Sono a Lima, in Perù, qui sono le 4.30 del mattino e sono stato svegliato dalla quantità di messaggi e chiamate che mi hanno raggiunto, quasi fosse morta una persona a me cara. Ovviamente non è così. Eppure mi dispiace, credo che in parte sia per un aspetto umano elementare, ha influito tanto nella mia vita, direttamente come regista e indirettamente, come vale per tutti gli italiani. E ora che è morto è inevitabile che ti lasci un senso di vuoto.
Persino lei che ha immaginato il suo omicidio si è intenerito?
Ovviamente non è mai stato qualcosa di personale tra me e lui. E detto questo deve essere chiaro, a mio parere, che la sua morte non deve farci dimenticare tutto il resto. Non si deve avere alcuna pietà per ciò che è stato e ci ha lasciato. E lui dietro di sé lascia solo macerie, un’Italia molto peggiore rispetto a quella che ha trovato quando è andato al potere, un paese senza rispetto per la cultura, per gli altri, un luogo incattivito.
Paradossalmente l’ultimo Berlusconi sembrava più responsabile.
In effetti la beffa, il paradosso è che se ne è andato ora che forse faceva da argine a chi era peggio di lui. Ma che lui ha contribuito a far riemergere dall’angolo buio in cui la Storia li aveva giustamente relegati.
Severo ma giusto.
Diciamo che mi fa piacere stare qui in Perù. E non pensare a un passato estremamente negativo. Preferisco essere qui a fare un documentario sul Buen vivir (Sumak kawsay, neologismo in lingua Quechua), un insieme di concezioni e visioni sudamericane, in particolare andine, che condividono prospettive radicali sulla nozione di sviluppo e altre componenti della modernità, proponendosi non come una forma alternativa di sviluppo, ma come un’alternativa allo sviluppo. In estrema sintesi il concetto rinvia ad una forma di vita armoniosa tra gli esseri umani e tra essi e il mondo naturale, all’insegna della gratitudine. Mi sembra un sistema di vita decisamente migliore del modello dominante attuale e trovo affascinante che la mia risposta a questo evento sia affrontare un viaggio che possa dimostrare che un mondo diverso è possibile.
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