“Sai che c’è un problema”. “E quale sarebbe il tuo problema?”. Santa Barbara, 1973, resa dei conti sull’uscio di una villetta da sogno americano. Con questo scambio sulfureo tra marito e moglie, in onda sul canale nazionale PBS, gli Stati Uniti scoprivano la potenza del format che di lì a poco avrebbe detronizzato la sit-com dal podio della più amata dagli americani: il reality show.
Un formato che nasceva allora, esattamente 50 anni fa, con An American Family, serie documentaria sulla vita “normale” di una “normale” famiglia americana ripresa, nella sua quotidianità, da una piccola troupe cinematografica. Di normale, naturalmente, l’esperimento non aveva nulla. A partire dal fatto che prima di allora mai niente del genere era stato tentato in tv: l’autore e regista del progetto, il newyorkese Craig Gilbert – amico stretto dell’antropologa Margareth Mead, autrice di un chiacchieratissimo studio sulle adolescenti delle isole Samoa – faticò non poco a convincere l’emittente, in crisi di ascolti, a scommettere sulla sperimentazione.
Ai provini si presentarono 24 famiglie, e a vincere furono i californiani Loud. Un nucleo che pareva nato per incarnare con telegenica precisione il sogno americano: i coniugi Bill e Pat – uomo d’affari lui, casalinga lei – i loro cinque figli Lance, Kevin, Grant, Delilah e Michelle, due cani perfettamente toilettati, una villetta col cancello di vernice, una piccola piscina. Il sogno americano.
Il primo reality della storia
Dagli otto mesi di riprese – dal maggio al dicembre 1971 – Craig ricavò 300 ore di prodotto, andato in onda nel 1973 in 12 puntate da un’ora. Tutto in presa diretta, tutto senza voce narrante, tutto vero. Insomma, tutto “normale”. Ma non nel senso iniziale dell’operazione.
Capace di trattenere davanti alla tv dieci milioni di americani ogni martedì, An American Family diventò giorno dopo giorno il racconto della disintegrazione di quel sogno di cui avrebbe dovuto essere la celebrazione catodica. La famiglia “perfetta” andò sfaldandosi davanti agli occhi degli spettatori, con i coniugi Loud sempre più distanti l’uno dall’altro: lui assorbito dal lavoro, lei insofferente alla vita di provincia, il figlio maggiore, Lance, nel pieno di una crisi d’identità di genere.
A fare il picco di ascolti, però, non fu il suo coming out – il primo della storia della serialità americana – ma il momento della rottura definitiva tra Pat e Bill, immortalato dalla camera di Craig nel nono episodio della serie. La famosa resa dei conti sull’uscio: “E quale sarebbe il tuo problema?”, dice Bill. A Pat l’ultima parola: gli allunga il biglietto da visita del suo avvocato e se ne va.
Divorzieranno nel corso della serie. Boom: il re è nudo, la normalità è una variabile, la famiglia “luminosamente californiana”, come scrive il New York Times, si rivela “comodamente ordinaria, tristemente familiare, il tipo di famiglia con cui la maggior parte degli americani della classe media bianca può identificarsi”. Newsweek dedica ai Loud la copertina, titolo: “The Broken Family”. Il reality è un successo nazionale.
Gli show più famosi
La realtà, come è facile intuire, non lo sarà altrettanto. Pat e Bill divorziano, la famiglia si divide tra l’America e l’Inghilterra, Lance diventa personaggio tv e presenza fissa nel giro di Andy Warhol. Nel 2001, malato di HIV e dipendente da vent’anni dalle metanfetamine, chiede e ottiene che venga girato un sequel per la PBS, che terminerà con la sua morte: Lance Loud!: A Death in an American Family. Un successo, naturalmente.
Nonostante l’esperienza del campione iniziale offrisse già tutti gli elementi per immaginarne la deriva, il genere del reality – da An American Family in poi – diventa un format irrinunciabile.
Prima Real People (NBC, 1979-1984: persone “normali” che fanno cose “strane”), poi nel 1992 Real World di MTV, che citava An American Family come ispirazione primaria: sette giovani sconosciuti reclusi in un appartamento, registrati nella loro quotidianità dalle telecamere, e mandati in onda in 13 episodi da mezz’ora. Come il Grande Fratello, ma senza diretta e senza competizione.
Del 2000 è Survivor, antenato de L’isola dei famosi, in cui 16 candidati vengono spediti per due mesi su un’isola disabitata nel Mar Cinese Meridionale: stavolta al cuore del format c’è la gara, i concorrenti votano l’uno contro l’altro e il conflitto è l’anima del successo – più di 50 milioni di spettatori per la finale. Dell’anno successivo è il Grande Fratello, dopo il quale nulla sarà più lo stesso.
Fioriscono i sottogeneri, dal “dating show” (The Bachelor, 2002, Temptation Island, 2001) alle sfide di gruppo (The Mole, 2001), dalle docu-serie con personaggi famosi (The Osbournes, 2002) ai talent per i lavori da sogno (The Apprentice, 2003, America’s Next Top Model, 2003, Hell’s Kitchen, 2005), fino all’universo dei talent show di cui American Idol, del 2001, è capostipite riconosciuto.
L’isola dei famosi e i reality show italiani
Anche in Italia, che saluta quest’anno i vent’anni de L’isola dei famosi, An American Story lasciò traccia. Il primo tentativo di reality del nostro paese, Davvero, si ispirava infatti a Real World, il serial di MTV a sua volta debitore dell’esperimento di Gilbert. Seguito nel 1995 da una media di due milioni e mezzo di telespettatori su Rai2, e prodotto da Carlo Degli Esposti (oggi presidente della casa di produzione Palomar), Davvero era un docu-drama in 45 episodi sulla generazione X, che raccontava i sei mesi di sette giovani studenti chiusi nello stesso appartamento a Bologna. Cinque anni dopo anche in Italia sarebbe arrivato il Grande Fratello, mentre è del 2003 la prima puntata de L’isola dei famosi.
Dieci anni più tardi, nel 2013, Gilbert avrebbe detto la sua sul fenomeno dei reality show, che lui stesso aveva innescato: “Usano persone vere, come abbiamo fatto noi. Ma gli scrivono i copioni. La loro è televisione di bassa lega, inguardabile”. Travolto dalle polemiche accese dal suo esperimento, sopravvissuto all’emarginazione dal mondo televisivo, a un divorzio e a un problema con la bottiglia, dagli anni Settanta Gilbert non ha più lavorato in tv: “Ho assistito a ogni attimo delle riprese di An American Family, ma solo alla fine ho capito perché ha messo a disagio così tante persone. Quel progetto parlava di noi. E di tutto quello che facciamo, quasi sempre fallendo, per dare un senso alle nostre vite”.
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