L’Amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes ha comunicato le sue dimissioni al Ministro dell’Economia e delle Finanze. Sulla decisione, Fuortes ha affermato: “Da decenni lavoro nell’amministrazione pubblica e ho sempre agito nell’interesse delle istituzioni che ho guidato, privilegiando il beneficio generale della collettività rispetto a convenienze di parte”. Non ci sono più le condizioni, ha specificato, “per proseguire il mio lavoro di amministratore delegato”. Nel primo anno di lavoro del nuovo Consiglio di Amministrazione, ha proseguito “con il governo Draghi il Cda ha raggiunto grandi risultati per l’Azienda. Per citarne solo alcuni: nuovi programmi e palinsesti che hanno portato tra l’altro a un evidente rilancio di Rai2, la trasformazione organizzativa per Generi, un Piano immobiliare strategico che si attendeva da decenni, un rilevante potenziamento di RaiPlay e dell’offerta digitale”.
Spoils system naturale da quando al Manuale Cencelli si è sostituito Palazzo Chigi pigliatutto, qualsiasi sia il colore della compagine governativa?
Non è così, prima di strapparci i capelli per il fascistissimo defenestramento dell’Ad in quota PD – sì, Fuortes, ex Auditorium, arrivò allo scranno Rai grazie a Franceschini e al suo plenipotenziario potentissimo Salvo Nastasi – è utile ricordare cos’è successo, soprattutto negli ultimi mesi. Così, giusto per disperarci per la luna (il decreto Lissner, quello sì antidemocratico, selvaggio e ad personam) e non per il dito (le dimissioni di Carlo Fuortes).
Dall’inizio del 2023, “sulla carica da me ricoperta e sulla mia persona si è aperto uno scontro politico che contribuisce a indebolire la Rai e il Servizio pubblico”, ha continuato. “Allo stesso tempo ho registrato all’interno del Consiglio di amministrazione della Rai il venir meno dell’atteggiamento costruttivo che lo aveva caratterizzato, indispensabile alla gestione della prima azienda culturale italiana. Ciò minaccia di fatto di paralizzarla, non mettendola in grado di rispondere agli obblighi e alle scadenze della programmazione aziendale con il rischio di rendere impossibile affrontare le grandi sfide del futuro della Rai. Il Consiglio di Amministrazione deve deliberare, nelle prossime settimane, i programmi dei nuovi palinsesti ed è un dato di fatto che non ci sono più le condizioni per proseguire nel progetto editoriale di rinnovamento che avevamo intrapreso nel 2021. Non posso, pur di arrivare all’approvazione in CdA dei nuovi piani di produzione, accettare il compromesso di condividere cambiamenti – sebbene ovviamente legittimi – di linea editoriale e una programmazione che non considero nell’interesse della Rai. Ho sempre ritenuto la libertà delle scelte e dell’operato di un amministratore un elemento imprescindibile dell’etica di un’azienda pubblica. Il mio futuro professionale – di cui si è molto discusso sui giornali in questi giorni, non sempre a proposito – è di nessuna importanza di fronte a queste ragioni e non può costituire oggetto di trattativa. Prendo dunque atto che non ci sono più le condizioni per proseguire il mio lavoro di amministratore delegato. Nell’interesse dell’Azienda, ho comunicato le mie dimissioni al Ministro dell’Economia e delle Finanze”.
Un eroe civile, quindi, che di fronte all’invasione dei meloniani in Rai – il suo addio apre le porte a Giampaolo Rossi, che sarà prima dg e poi amministratore delegato, uno che sul suo blog ha inneggiato a Putin e definito Navalny una spia della Cia (autore di titoli come Colpire Putin per educarne 100 o Papa Francesco Soros), e stiamo parlando solo delle posizioni più presentabili – si immola? Oppure un dirigente pubblico che se ne va un attimo prima – ma non è detto – di diventare un meme. Che poi le modalità possano essere golpiste come Bonelli e De Cristofaro hanno subito chiosato, chiedendo una riunione straordinaria della Vigilanza Rai, è un altro paio di maniche.
Va raccontata la lunga e interessante storia di Carlo Fuortes, voluto fortissimamente dal Pd e da Dario Franceschini, che già lo aveva confermato – fino al 2025 – come sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma e che poi lo aveva nominato come Commissario Straordinario della Fondazione dell’Arena di Verona. Nel pantheon franceschiniano e dunque del partito democratico – dove non si muove foglia che Dario non voglia – una figura di primo piano, se si conta anche che le nomine prima a Palaexpo e poi all’Auditorium a inizio millennio (un regno di una dozzina d’anni) sono avvenute nella Roma il cui sindaco era Walter Veltroni.
Eppure. Eppure Carlo Fuortes non si è dimesso, pensando a palinsesti e affini, dopo le elezioni. E neanche dopo aver confrontato la sua visione con il nuovo governo (ricordiamo che da quando l’Ad è diretta emanazione della presidenza del consiglio, anche se la proposta deve arrivare dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, ha la facoltà-dovere di riferire al premier, perché la libertà d’informazione nel nostro paese è in pericolo da diversi anni, non da 3 giorni).
Carlo Fuortes si è dimesso dopo averne provate più di un altro Carlo, in Francia, nel tentativo di trovare un accordo.
Prima lo aveva trovato con la Lega – non è un caso che oggi, all’annuncio, Matteo Salvini ci abbia subito tenuto a definire le sue dimissioni come un atto volontario e non condizionato da nessuno – e aveva rimesso in caldo la riconferma post elezioni, nonostante i padrini precedenti. Poi la sua posizione è tornata precaria, perché Giorgia Meloni ha temuto la santa alleanza tra l’ex dirigente in quota PD e il suo alleato più irrequieto. Allora Fuortes ha pensato bene di riparare alla Scala, come Sovrintendente, ruolo dato per certo per settimane da tutti, ma non dal sindaco Beppe Sala e dalla Scala stessa che con un Cda fatto slittare rispetto a quello Rai, a dicembre scorso, ha tolto anche questa opzione dalle possibili vie di fuga di Fuortes. Che desidera passare di barca in barca senza neanche bagnarsi i piedi, e per mesi la poltrona di Ad Rai se l’è tenuta stretta in attesa che gli trovassero posto altrove.
Arriva così il decreto Lissner, che mette un limite d’età per ricoprire la posizione di direttori delle fondazioni lirico-sinfoniche, un pensionamento coatto e di fatto retroattivo, visto che il francese, a capo del Teatro San Carlo di Napoli, ha compiuto i 70 anni stabiliti per decreto come ultimo argine anagrafico il 23 gennaio scorso. Un obbrobrio legislativo che crea un terremoto nelle fondazioni lirico-sinfoniche e che ha visto organizzare un Consiglio dei Ministri ad hoc (come il decreto) solo per risolvere la pratica.
Sventurato il paese il cui governo è divorato dall’ansia di colonizzare la tv pubblica e i cui dirigenti, lottizzati, cambiano maglia con troppa facilità. E si ricordano di non poter firmare palinsesti e progetti editoriali contrari alle proprie visioni solo quando li rimbalzano alla Scala e al San Carlo gli promettono battaglia, perché Stephane Lissner, peraltro bullizzato in un attacco concentrico del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che con sospetto tempismo pochi giorni fa ne contestava la programmazione non all’altezza della struttura, ha promesso un ricorso che difficilmente lo vedrà perdente.
Dimissioni o dimissionato quindi? La verità è che oltre al decreto, pericoloso nei modi istituzionali e nei contenuti, questa sembra la solita storia di malcostume politico e culturale italiana, con cambi maglia spregiudicati.
La solita figuraccia per accontentare le figurine con cui si riempie l’album delle poltrone.
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