È il 26 settembre 1960 e negli studi WBBM-TV della CBS a Chicago, Howard K. Smith si appresta a moderare davanti a tutti gli Stati Uniti in febbrile attesa – con quattro giornalisti a dargli manforte, il programma televisivo più atteso. Si fa la storia: mai prima due candidati alla Casa Bianca si sono sfidati in tv, gli spettatori alla fine saranno 70 milioni.
Kennedy vs. Nixon
Nasce la cosiddetta teledemocrazia, e nasce con un Kennedy che appare sicuro di sé, che ha preparato il dibattito come una performance artistico-sportiva, con tanto di prove, allenamenti per la postura fisica (per lui davvero massacrante, visti i suoi drammatici problemi di schiena), un’attenta strategia mediatica che gli ha cucito addosso risposte perfette, si dice anche con l’aiuto di intellettuali, artisti e registi amici. Dall’altra parte il vicepresidente in carica, Nixon, piegato da una campagna elettorale classica in cui ha accumulato chilometri e acciacchi, e con un approccio al mezzo rispettoso (aveva intuito il potere mediatico della televisione) ma irrimediabilmente antico.
Il risultato è clamoroso: se chi li ascoltava alla radio non percepisce che vi sia un vincitore (e dice tantissimo della rivoluzione in atto), alla tv Kennedy straccia Nixon, che suda, ha sbagliato abito, imposta le sue risposte sul denigrare l’avversario mentre quest’ultimo vola alto con le parole e lo ridicolizza con i piani d’ascolto, una tecnica cinematografica al tempo geniale. Laddove l’approccio del pubblico alla tv è ingenuo e immediato, lui capisce che deve usare quello schermo come una finestra e non come uno specchio, per entrare dentro le case degli elettori e non riflettersi e piacersi.
Nixon è un politico, in quel momento, gioca contro l’avversario, per batterlo. Kennedy gioca per vincere e convincere un popolo. Vuole rassicurarlo, vuole che tutti capiscano che le redini del comando, con lui, saranno in buone mani. Parla di ciò che gli americani vogliono sentire, anche se non lo sanno (come i diritti civili) e la denigrazione di chi gli è di fronte (o meglio, accanto, perché la telecamera è frontale) la consegna alla sua espressività da attore consumato. È bello e carismatico, ha un sorriso magnetico e un’ironia elegante: le sue smorfie che denotano scarsa convinzione o addirittura ilarità mentre parla Nixon sono la chiave di volta del dibattito. Basti pensare che sarà usata questa strategia anche decenni dopo, da Berlusconi (più “comico”) a Trump (più “animalesco” e sprezzante). Nixon capisce, arranca, prova a contrattaccare. A telecamere spente si avvicina a Kennedy, lo saluta. JFK risponde con una calorosa stretta a due mani, Nixon con la mano libera, dopo un sorriso teso, gli parla, puntando il dito sul petto. Spera, con qualche foto di comunicare agli americani che sta “rimbrottando il ragazzino” dopo il dibattito, magari riguardo alla politica estera o all’economia. Capisce la forza dell’immagine, ma non la doma. E quelle foto usciranno, ma lo faranno risultare solo un bulletto. Non si riprenderà Richard che pur diventando in seguito presidente (e sappiamo come andò a finire, vedi scandalo Watergate) pensò bene, anni dopo, di farsi demolire in un altro confronto televisivo (vedere Frost/Nixon di Ron Howard per credere, un cult).
Dopo 63 anni, la nuova rivoluzione di Donald Trump
Una lunga premessa, ma dovuta. Perché per capire cosa sta succedendo in vista di Usa 2024, bisogna tornare a quel “mito fondativo” politico e mediatico che sia pure con qualche strappo, ha stabilito la liturgia delle campagne elettorali dei successivi 63 anni. Un rito vero e proprio, intoccabile, che comincia con i confronti infiniti (a 6,8, 9 persino a 12) tra i candidati repubblicani e democratici perché i due partiti trovino il loro cavallo migliore fino ai tre scontri finali, senza esclusione di colpi. Qualcosa di simile a un’Olimpiade della comunicazione, in cui l’atleta capace e di talento magari riesce a dare tutto nelle qualificazioni, battendo i suoi (da Dukakis a Sanders, abbiamo i più vari esempi in proposito) ma poi non trova il giusto passo nella battaglia finale. Oppure l’underdog – che tale non è, visto che è figlio d’arte – George Bush jr che in un oscuro dibattito iniziale tra repubblicani piazza una stoccata geniale e chissà quanto voluta. Chiede, il giornalista moderatore, chi è l’eroe di ogni candidato. Tutti rispondono con nomi di padri della patria, intellettuali, uno persino un campione di baseball, altri personaggi controversi. Lui sembra disorientato, in difficoltà. Quasi nervoso. In realtà vuole risultare commosso ed emozionato. E con un pudore che non gli ritroveremo più pronuncia quattro lettere (no, non “papà”, in quel caso sarebbe stata una campagna elettorale italiana): “Gesù”. Quella risposta, da molti ridicolizzata e da vari comici ripresa in modo denigratorio, sarà la prima pietra fondante del successo di un presidente che incardinerà il suo doppio mandato proprio su questo legame ancestrale, irrazionale, fideistico con l’America profonda.
L’impresa “impossibile” di Donald Trump
Donald Trump sta provando un’impresa impossibile. Farsi rieleggere alla Casa Bianca. Dopo due impeachment (il primo, pochi ricorderanno, coinvolgeva l’Ucraina e i suoi tentativi di screditare Biden e il figlio Hunter), una condanna di alto tradimento sfiorata per un nonnulla, 37 capi di imputazione, tra civili, penali e federali, un assalto al Campidoglio che molti considerano da lui eterodiretto e di sicuro causato dalle sue parole e dall’aver messo in dubbio le ultime elezioni. Un atto irresponsabile, selvaggio e folle – due giorni fa “rivendicato” e sostenuto – che ha avuto anche i suoi emuli: il più riuscito e spaventoso Jair Bolsonaro. Ah, dimenticavamo, proprio pochi giorni fa è stato anche tratto in arresto, per pochi minuti, fino al pagamento di una cauzione di circa 220.000 dollari. E da quel pugno di minuti è partita una nuova epoca delle campagne elettorali statunitensi. Sì, perché su X (l’ex Twitter) – interessante il riutilizzo di un social media che lo aveva bannato e che lo aveva portato a inventarsi Truth, social fondato dalla Trump Media & Technology Group – ha postato la sua foto segnaletica, divenuta immediatamente virale. Con una chiamata alle armi, ovviamente.
L’avvento della socialcrazia
Trump, con una sola mossa, ci ha permesso di scoprire e capire la sua nuova strategia elettorale. Non più fondata sull’uso e al contempo il sabotaggio dei vecchi meccanismi – la slealtà nei confronti televisivi, le accuse senza prove verso i rivali e loro parenti, amici e sodali, l’accelerazione sulla pessima abitudine degli spot contro, già molto utilizzati dagli anni ’90 e cavallo di battaglia neo e teocon – ma sulla loro demolizione definitiva, in favore di una deriva ancora più estrema. Se prima Donald usava i social come un esercito, efficacissimo, ma a parte, senza abbandonare i media classici – tv e giornali, secondo lo schema Fox della coppia Murdoch-Bush -, ora li usa come unico campo di battaglia. Deve aver deciso di farlo in due momenti precisi: quando è riuscito, con l’aiuto dei russi, a inondare la Rete di menzogne su Hillary Clinton e i democratici (con QAnon che è diventato l’equivalente politico di Scientology in quanto a credibilità, capacità di veicolare notizie grottesche e parossistiche e possibilità di creare un popolo inquietante che fonda la propria vita su un complottiamo demenziale), definiti dal suo popolo come “pedofili e trafficanti di esseri umani”; poi quando la Rete è stata il muro di rimbalzo per la sua chiamata alle armi nell’assalto dell’Epifania 2021 al Campidoglio.
Da lì, Donald Trump ha capito. Ha fatto l’errore strategico di provare subito a rovesciare le sorti della sua sconfitta elettorale (per modo di dire, nessun candidato perdente ha mai raccolto più voti) e ha costruito, sull’altare delle nuove tecnologie, un populismo 3.0 che ha visto (anche) l’Italia come laboratorio, da Berlusconi alla Lega e la sua Bestia (in parte cresciuta proprio guardando oltreoceano) e l’uso della rete del M5s, con una visione politico-tattica-elettorale simile a quella della destra sudamericana. Il tutto con un’incredibile capacità – che, ricordiamolo, aveva già avuto con il mezzo televisivo, determinante per le sue fortune di imprenditore e di politico, avendo intuito meglio e prima di tutti le potenzialità di reality e affini – di cavalcare, nonostante l’età, linguaggi e media molto moderni.
Ora, dopo 63 anni, tutto questo porta a una rivoluzione. Da una parte Donald Trump che spazza via ogni liturgia. Ci fa sapere che l’unica carica politica che puoi ricoprire (persino) da detenuto negli Stati Uniti è quella di Presidente. Ci mostra la sua foto segnaletica, con orgoglio ma al contempo l’accompagna a una dichiarazione sull’esperienza “terribile”. Condottiero ingrugnato e vittima del sistema, eroe contro ogni complotto. Utilizza la sua battaglia – ricordiamolo persa in tutti i tribunali, persino in quelli “amici” – per le elezioni scippate nel 2020 come collante emotivo e sociale del suo popolo. E ignora i dibattiti a cui partecipano gli altri candidati repubblicani, partito che si trova sempre più in un angolo, destinato per la terza volta, quasi sicuramente, a sostenere un candidato a cui il suo ceto politico non crede ma di cui il suo elettorato è innamorato (un inquinamento “politico” simile a quello della destra nostrana: se semini il vento del populismo, poi il tycoon che ne approfitta per devastare anche il tuo tessuto sociale di riferimento, nonché quello del paese, è il minimo che ti puoi aspettare).
Deciso a svuotare il confronto politico diretto di significato e di senso, così come ha tentato di fare con la democrazia e la legalità, viene seguito a ruota, “solo” strategicamente e inevitabilmente da Joe Biden, che pure sui dibattiti ha probabilmente costruito il suo successo di tre anni fa. Biden, infatti, ha scelto una strategia diametralmente opposta rispetto al passato. Non la risposta colpo su colpo, ma il silenzio di fronte a ogni provocazione (Donald Trump ha di nuovo scelto il figlio Hunter come obiettivo: il suo è un caso esemplare, non si è mai macchiato di reati ma al massimo di azioni improvvide, però viene trattato da una parte d’America come un serial killer). Un silenzio che si annuncia lungo, in parte perché sul nuovo campo da gioco il presidente in carica è perdente, perché la sua popolarità è ai minimi termini, perché si augura che Trump possa essere – e non a torto – corroso dal suo stesso sistema a lungo andare. In passato, infatti, Donald sfruttò una campagna lampo da sfidante e una rimonta all’ultimo come presidente in carica. È sempre stato un velocista, sulla maratona di anni non lo conosciamo ancora.
La curiosità, la spigolatura più sconvolgente però è un’altra. Sembra incredibile, ma la sfida che vedrà i due candidati più anziani che mai si siano sfidati per la Casa Bianca, si giocherà su terreni da Generazione Z. Vi basti dire che le tesi di QAnon hanno trovato recentemente nuova vita e linfa. Sapete dove? Su Tik Tok.
Insomma mentre noi analizziamo secondo le scienze comportamentali e della comunicazione e dell’analisi storica e antropologica la tattica usata negli scorsi anni (guardate il documentario Donald Trump – la strategia delle bugie, davvero interessanti), con il suo grugno che sembrerebbe ridicolo pure in una vignetta satirica Orange Julius (o se preferite Capitan Chaos, i suoi soprannomi sono tanti e spesso irresistibili) pone le basi definitive per la “socialcrazia” da cui non torneremo più indietro. E di cui la vittima più illustre sarà proprio la verità, quella Truth di cui si riempie la bocca ossessivamente e che rispetta meno di sua moglie. Toh, anche qui ricorda qualcuno.
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