“Come Maledetto il giorno che t’ho incontrato, quando intervistano Jimi Hendrix e staccano lo spinotto”. L’intervista con Edoardo Ferrario inizia parlando di una delle paure più grandi per un giornalista: prepararsi a trascrivere la conversazione e scoprire che l’audio che si pensava registrato in realtà non c’è. Così, in un eccesso di scrupolo, per i quaranta minuti successivi ci ritroviamo con tre registratori accesi sotto il naso. In queste settimane il comico, attore e imitatore romano è nel cast dello GialappaShow e in quello della seconda stagione di Prova Prova Sa Sa su Prime Video dove sarà protagonista anche di No Activity nel 2024.
Lo vedremo presto anche in Hanno ucciso l’uomo ragno – La vera storia degli 883 per la regia di Sidney Sibilia dove interpreta il ruolo del produttore Pier Paolo Peroni. In attesa del suo debutto al lungometraggio al cinema in un film scritto con Nicola Guaglianone. “Una commedia nella quale interpreto tre personaggi. Parlo della mia generazione, di cosa vuol dire non trovare il proprio posto in Italia, dover andare a cercare all’estero e tutte le frustrazioni che questo comporta. Di fatto è una commedia sull’accettazione”.
Nato alla fine degli anni Ottanta. Sarà cresciuto guardando la Gialappa’s.
Mi fa sempre molto strano lavorare con persone con cui sono cresciuto vedendo i loro programmi. Per me loro sono degli idoli esattamente come lo è Serena Dandini. Ho avuto la fortuna nella vita di lavorare con entrambi. Una volta ho visto un video della Gialappa’s che commentava un mio lavoro e mi sono quasi commosso. Ho pensato: “Non è possibile”. In assoluto la cosa più bella, oltre la soddisfazione di lavorare con loro, è quello che puoi imparare. Ti insegnano tanto sulla comicità, sul ritmo, sui contenuti.
Nello show con Bad Talk e Maicol Pirozzi è protagonista di due momenti. Se prima l’ispirazione era la strada, ora sono i social?
Sì, decisamente. I contenuti di questa edizione sono tutte parodie di quelli che vedo sui social. È un momento storico particolare in cui mi sembra che le persone abbiano sempre meno certezze e le cerchino sempre di più online. Si è creato un mercato di persone che ti insegnano a vivere, ad avere un buon rapporto con la tua compagna o con i tuoi figli. Mi sembra che il tempo che uno passa a vedere lo smartphone cercando di imparare è tutto tempo che perso per fare esperienze reali. In questo sistema, in cui persone che non hanno alcuna competenza sostengono di poterti insegnare a vivere, mi sembrava ci fosse materiale comico.
Non c’è spazio per il fallimento.
Vietato fallire, sì. Ti senti ancora più fallito e quindi hai ancora più bisogno di guru che ti dicano come investire il tempo con i tuoi figli, con tua moglie, eccetera. Però il problema qual è? Che sono falliti loro. I personaggi che ho fatto sono tutti persone devastate, dei casi umani che cercano di mascherare questa cosa che però poi viene fuori. Sia Bad Talk che Maicol Pirozzi iniziano con i loro che ti danno degli insegnamenti fondamentali. Poi però cedono completamente. È quello che vorrei vedere. Mi piacerebbe assistere a un Ted Talk onesto nel quale questa persona che arriva sul palco per dirti come guadagnare con la mindfulness e poi improvvisamente ammetta: “Sono disperato”. Però questo sui social non è concesso. Ho pensato potesse essere un contenuto molto adatto alla Gialappa’s che da sempre castiga questi grandi cialtroni. Ho avuto un’enorme libertà.
Lei come si relaziona con il fallimento? Come si riparte da una serata andata male?
Ormai faccio live da una decina di anni. Con il tempo impari e sviluppi un’esperienza che ti consente di gestire le situazioni. Ci arrivo molto preparato. È difficile che le cose non vadano bene. Perché non può essere una sorpresa neanche per me. Se hai un tour di quaranta date è meglio che tu abbia un’idea chiara di quello che devi fare (ride, ndr). Però, visto che quello che facciamo è particolare – perché quando scrivi comicità non sai bene come va – devi provare con il pubblico.
In questo periodo sto facendo delle serate open mic di 5/10 minuti a Roma in cui si possono provare i pezzi. Il bello della comicità e che si completa con il pubblico. Louis C.K. ha detto che il fallimento ti avvicina a chi sei. Quindi, in un certo senso, più fallisci più impari. Quando c’è qualcosa che non funziona cerco di farne tesoro. Sarebbe anche strano se tutto andasse sempre bene. Evidentemente il pubblico sarebbe troppo ben disposto nei miei confronti. Credo ci si debba sempre mettere in discussione quando fai questo lavoro.
È anche una lezione di umiltà?
In America è prassi che anche Chris Rock, Dave Chappelle e altri comici di successo mondiale quando provano i pezzi lo facciano al Comedy Cellar di Manhattan davanti a 100 persone. È il locale dove si esibiscono anche gli esordienti. È fondamentale provare i pezzi e forse è bello anche quando non funzionano perché ti spinge a fare sempre di più, a scrivere meglio. In Italia ci sono tanti comici di grande esperienza che arrivano con lo spettacolo già pronto, scritto da venti autori. Ecco, quello a me non mi divertirebbe molto.
Louis C.K., nel periodo del Me Too, è stato accusato di comportamenti inappropriati. Fortemente attaccato sui social dalle stesse persone che poi sono accorse a comprare i biglietti quando è tornato a esibirsi. Cosa ne pensa?
Se lo attacchi sui social e poi lo vai a vedere dal vivo non sei veramente arrabbiato con lui. Anche questo oggi è un lavoro. Molte persone hanno successo per il personaggio che hanno sui social, che commenta e si incazza. Poi però, appunto, se sei veramente arrabbiato non gli dai i soldi. Nel caso di Louis C.K. ha ammesso la veridicità di quei comportamenti, ma non sappiamo realmente cosa sia successo. In molti casi si parlava di fatti avvenuti vent’anni prima. Penso abbia fatto un percorso di redenzione.
Ha chiesto scusa, ha ascoltato, ha parlato di quello che era successo negli spettacoli. È un comico di enorme successo. Quello che è vero è che se una persona con meno successo di lui avesse fatto la stessa cosa sarebbe stato perdonato meno facilmente. Ma credo anche che le cose non succedono mai a caso. Se le persone sono tornate a cercarlo evidentemente trovavano in lui una verità. Forse anche nelle sue scuse.
Oltre le serate open mic, su chi altro testa i suoi monologhi?
Cerco di tediare il meno possibile mia moglie con quello che scrivo (ride, ndr). Ma è abbastanza naturale perché in parte tranquillizza me e in parte c’è una sua curiosità nel sapere a che genere di serata andrò incontro. Ma, alla fine, è sempre il pubblico il vero riferimento. Il problema è che le persone che ti conoscono intimamente non saranno mai quelle che ti giudicheranno quando sei sul palco. Non è assolutamente un metro di riferimento credibile.
Quando poi le provi di fronte a 100 persone che tendenzialmente non ti conoscono, è lì che vedi la risata. Anche perché quello che racconti sul palco non è necessariamente quello che tu rappresenti per una persona che ti conosce bene. Se quello che siamo lì sopra fosse esattamente quello che siamo come persone, non credo ci sarebbe comicità. È divertente interpretare un personaggio quando sei sul palco. Anzi è fondamentale. Lo fa qualsiasi comico.
La sua carriera inizia su YouTube. Perché ha scelto quel mezzo?
A gennaio saranno 10 anni dall’uscita di Esami. È stato un percorso abbastanza lungo. Inizia anche ad esserci uno storico, si possono studiare delle dinamiche. Quando ho iniziato facendo la webserie era un momento da Far West. C’era solo la televisione. Quando dicevo che volevo fare il comico mi dicevano di andare a Zelig. Non esisteva un altro riferimento. Ho iniziato a fare quello che faccio nel mio stile perché, tanti anni fa, mi sono imbattuto in spettacoli che andavano scaricati da siti pirata: Poi c’erano altri siti che mettevano i sottotitoli da abbinare. Era una roba proprio preistorica (ride, ndr). Però vedendo quello stile lì ho pensato: “Cazzo ma c’è gente che racconta le cose così sul palco. Voglio farlo pure io”. L’impeto è nato da lì.
Quando ho fatto Esami era l’epoca d’oro delle webserie, qualcosa che sostituiva la televisione. Non avrei mai potuto fare gli sketch che ho fatto in tv perché non avrebbe avuto senso, sarebbero finiti in un programma su Rai 2 a mezzanotte. Non c’era neanche Rai Play all’epoca. La decisione di metterla su YouTube ha ripagato perché è stata vista da moltissime persone, mi ha dato una certa notorietà fra gli studenti universitari. Un pubblico che poi mi sono portato avanti per tanti anni.
Ora molti comici si sono spostati su Instagram. La divertono?
Ci sono una quantità di contenuti comici, per quanto mi riguarda forse sono anche troppi. I social si sono completamente sostituiti alla televisione anche perché il successo di un programma tv oggi è anche dato dal successo che ha sui social. Sono così preponderanti che, in un certo senso, la tv diventa un secondo schermo. Ci sono tante cose che non mi piacciono perché mi sembrano tutte uguali ma ci sono anche dei gioiellini. È come avere un miliardo di canali televisivi, con la differenza che un canale televisivo ha dei costi mostruosi e un video non costa nulla. Questo sicuramente porta ad un annacquamento dei contenuti. Però in questo proliferare ci sono anche tante cose belle. Consideriamo anche che uno deve anche saper scegliere. Una cosa che proprio non mi diverte è svegliarsi e trovare su Twitter un milione di battute tutte uguali. E tu dici “Cazzo ragazzi, mettetevi d’accordo”.
Prova Prova Sa Sa è un modo per restare allenato all’improvvisazione?
Si, decisamente. Non è scritto, è così come lo si vede. Non abbiamo idea di nulla, sei veramente sotto pressione come concorrente. Mi diverto tantissimo a farlo. Abbiamo sempre lavorato in grande armonia. Registriamo quatto ore e il pubblico ride dall’inizio alla fine. Frank Matano che è lo showrunner del progetto. Vide il format su cui è basato il programma, Whose Line Is It Anyway?, quando andava da ragazzo dai suoi zii in America. Mi ha fatto vedere il pitch che tradusse all’epoca. Dopo il successo di Youtube andava dai vari produttori a proporlo. Ovviamente era una cosa che non non era plausibile si facesse all’epoca. È bello che adesso abbia avuto la possibilità.
Interpreterà Pier Paolo Peroni in Hanno ucciso l’Uomo Ragno, la serie sugli 883. Com’è andata?
Peroni non è Max Pezzali né Mauro Repetto. Non è nell’immaginario collettivo. Il primo desiderio che ho avuto non è stato quello di conoscerlo proprio perché le persone non hanno un riferimento visivo così definito. Per il provino mi avevano mandato delle battute. Erano scritte molto bene. Non mi capita spesso di ricevere un testo per cui dico: “Amazza, questa roba la potrei fare proprio come penso io”. Per come erano state scritte mi hanno richiamato un certo tipo umano di romano. Quello che arriva, comanda ed è sicuro di saper fare le cose fatte bene anche in un modo un po’ cialtronesco. Mi sono inventato un modo per farlo e ho registrato il video. L’ho mandato a Sydney Sibilia e mi ha detto: “È incredibile l’hai beccato perfettamente, è proprio lui”. Mi ha preso subito. È stata una grande soddisfazione. È la prima volta che faccio un personaggio con un peso in una serie. È una prova attoriale.
Dalla serie sugli 883 al doppiaggio di Beavis & Butthead. C’è nostalgia per gli anni Novanta.
Qualche giorno fa sono andato a vedere il secret show dei Green Day a Milano. Una cosa stupenda per me, una specie di sogno. Però pensavo di stare lì tipo nonno. Invece c’erano anche persone più giovani di me. C’è un ritorno agli anni Novanta, sì. A me sembra l’altro ieri , invece sono passati trent’anni. È terrificante (ride, ndr). Viviamo in un’epoca obiettivamente complessa e anche abbastanza minacciosa rispetto al futuro, più che sognare di guardare avanti ci voltiamo sempre di più e guardiamo indietro. Anche perché forse gli anni Novanta sono stati l’ultimo vero momento di benessere mondiale. Una ricchezza che non c’è più: calotte polari al loro posto, temperature sostenibili, grandi estati (ride, ndr).
Berlusconi è stato nominato più volte in Cachemire, il podcast condotto con Luca Ravenna.
È stato il primo politico a capire che la comicità è un linguaggio estremamente persuasivo per l’elettorato. È stato il primo a crearsi intorno una struttura, un perimetro molto ristretto entro il quale i suoi autori potevano prenderlo in giro. “Guardate cosa fanno i miei giullari. Non vedete come mi prendono in giro?”. E in quel momento le persone si sentono vicine perché la comicità ti umanizza. È il meccanismo più basilare al mondo. Se fai ridere le persone ti amano. Berlusconi è venuto dopo la generazione di Craxi e Andreotti. Politici grigi, compassati. Ha capito come attraverso il suo enorme potere mediatico potesse avvicinarsi a diventare una figura quasi divina, idolatrata. Oggi non c’è più quell’autoironia. I politici non vogliono più, ma forse non hanno neanche i mezzi per consentire ad altri di fare satira su di loro. Però si fanno satira da soli.
In che modo?
Credo che oggi i politici abbiano degli uffici stampa che mettono in giro dei meme. Quelli di Luigi Di Maio che fa il basket non dico se lo sia fatto lui. Ma è evidente che li abbiano visti e detto: “Benissimo”. Per non parlare di Grillo. Chi più di lui. Ha avuto dei risultati – a breve termine, certo, perché per la politica è un lavoro devi saper fare – però se c’è qualcuno che ha veramente sparpagliato le carte nella politica italiana forse ancora più di Berlusconi è stato lui. Matteo Salvini pubblica i video con i gattini. Cos’è avvicinarsi all’elettorato più di quello? Giorgia Meloni riposta la canzone “Io sono Giorgia”. La comicità è un linguaggio persuasivo.
Ed è anche politico.
Certo. È sempre successo. Ronald Reagan era un attore ed è diventato presidente degli Stati Uniti, Arnold Schwarzenegger è diventato governatore della California, Zelensky era un comico. Oggi anche grazie ai social i politici hanno capito benissimo che la comicità è un’arma fondamentale e che ti devi far prendere in giro. È anche il motivo per cui mi spaventa un po’ la comicità sui social. Alla fine non è più un’arma tagliente. Diventa un paio di forbici con la punta arrotondata. Se non offendi nessuno e se tutto è compiacimento alla fine perde significato. Ci vogliono persone brave. Dico una cosa impopolare: sarei per dare la patente ai comici.
Si è mai auto-censurato?
No. Sono un grande fan del capire il contesto in cui stai. Mi intristisce e trovo pietosa la polemica del tipo: “Mi hanno censurato sulla Rai”. Ma che cazzo ti aspettavi? Devi sempre capire dove sei. Non sono mai stato sul palco di Sanremo, non mi sono mai trovato nella situazione in cui qualcuno mi dicesse “questo lo puoi dire, questo no”. Nei miei spettacoli non uso un linguaggio volgare e detesto l’espressione “satira al vetriolo”. Non ho quello stile che vuole essere per forza provocatorio, però mi prendo belle libertà.
Parlo di qualsiasi cosa perché so che nessuno mi può dire che io sia razzista o sessista. Perché intimamente so di non esserlo. Questo per me è l’unico parametro che dovrebbe avere un comico. Tutto dipende da quello che tu sei, da qual è il tuo pensiero. Sarà poi il pubblico a decidere. Non mi censurerei mai pensando che possa in qualche modo equivocare quello che dico. Da sempre lo considero intelligente.
Se le proponessero Sanremo andrebbe?
Sì, certo. Anzi, se può sentire qualcuno e poi mi fa uno squillo (ride, ndr). Secondo me ha molto più senso andare a Sanremo che a un talent di comici. È il palco forse più difficile in Italia. Ma lì ho visto comici fare pezzi molto divertenti. Da Checco Zalone a Pio e Amedeo che non amo in altre cose. A me quei contesti lì stimolano.
Ha paura di sovraesporsi? Si è mai posto il problema?
Sì, certo. Mi hanno proposto tante cose che ho rifiutato.
Un esempio?
Serie di estrema popolarità in Italia che mi avrebbero reso santo subito. Nonché un grande ciclista.
Altro?
Ho rifiutato vari programmi di intrattenimento estremamente popolari nella domenica pomeriggio di Rai 1. Varie cose che non faccio perché sento che non è il mio contesto. Preferisco essere conosciuto dal maggior numero possibile di persone alle quali voglio parlare rispetto a persone che non hanno interesse ad ascoltare quello che dico. Non ci tengo molto ad essere un volto televisivo. Mi fa anche un po’ paura l’idea di essere solo un volto. Mi piacerebbe essere più uno che parla e che viene ascoltato. Un giornalista giorni fa mi ha detto: “Magari se dico ‘Edoardo Ferrario’ mia mamma o mia zia non lo conoscono”. Forse non è neanche necessario.
È cambiato talmente tanto il modo di fruire dei contenuti che è anche un po’ utopico pensare di poter piacere a tutti. Negli anni Novanta c’erano sei canali. E alla fine diventai famoso per forza. Se azzeccavi una cosa ti vedevano dieci milioni di persone, Ma come fai quando hai 10 milioni di producer, di contenuti, di content creator. Si è invertito il rapporto. Oggi bisogna lavorare molto più sulle nicchie.
È a lavoro su film con Nicola Guaglianone. Cosa può anticipare?
È una commedia nella quale interpreto tre personaggi. Si parla di temi a me molto cari. Ho voluto mettere in loro tante cose del mio mondo che mi divertono. Parlo della mia generazione, di cosa vuol dire non trovare il proprio posto in Italia, dover andare a cercare all’estero e tutte le frustrazioni che questo comporta. Di fatto è una commedia sull’accettazione. Sono tre personaggi che devono accettare loro stessi.
Molti colleghi popolari su YouTube non hanno avuto lo stesso successo in sala.
Il cinema è completamente un altro linguaggio. È come essere il più bravo di tutti a giocare a calcetto e poi improvvisamente ritrovarsi in Champions League. Oppure essere bravo a giocare a racchettoni e poi improvvisamente dover giocare a tennis. Magari se sei bravissimo a giocare a racchettoni puoi anche essere bravissimo a giocare a tennis. Ma le due cose non sono collegate.
Crede sia dovuto anche al pubblico, spesso molto giovane e abituato a vedere contenuti gratuiti?
Questo è molto legato anche alle aspettative dei produttori. All’inizio non ci si capiva niente con questa cosa del passaggio dal web al cinema. Vedevano i click su YouTube. Ma quando devi andare al cinema devi tirare fuori 8 euro, prendere l’autobus o farti accompagnare. Credo che all’inizio sia stato un errore dei produttori. Alcuni di quei film sono buoni. Ma forse l’aspettativa che c’era, il modo in cui sono stati distribuiti come se fossero film fatti da Aldo, Giovanni e Giacomo dopo il successo avuto in televisione, è stato il frutto di poca lungimiranza o di aspettative eccessive.
Oggi è diverso?
Si ha più consapevolezza nel fatto che, anche se sei il più bravo su Internet, quando devi andare al cinema hai bisogno di una sceneggiatura. Il film di Paola Cortellesi in due settimane ha fatto 9 milioni. Ma non perché è Cortellesi. Quanti attori comici esordiscono alla regia e non gliene frega niente a nessuno? Serve un’idea, una sceneggiatura e un pensiero. Quando ci sono, il pubblico reagisce. “Il cinema è morto, il teatro è morto”. Non è vero, perché se fai le cose belle la gente le va a vedere. Se continui a considerare che il pubblico voglia vedere solo la merda o cose fatte sempre uguali da trent’anni, a un certo punto il problema è tuo. Non puoi gridare alla morte del cinema. Forse la morte è tua. Mentale. Come produttore, come autore. Ti devi mettere in discussione. Sempre.
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