Se ne va, Fabio Fazio.
E gli va dato atto che lo fa, nel bene e nel male (un’espressione che useremmo così tanto in questo editoriale, da cercare di sottintenderla il più possibile), con il suo stile, anche mentre gli altri perdono l’aplomb: Michele Serra si produce in un editoriale insolitamente duro per i suoi standard odierni (buona la battuta sul Quartetto Cetra e Topo Gigio); Tullio Solenghi lancia un elegante anatema in rima “mentre il pubblico servizio/ non trovando sostitutio/ crollerà nel precipizio/massacrandosi con strazio/proprio lì sotto il prepuzio/come un misero tafazio” e Luciana Littizzetto si duole “che non abbiamo passato la crisi del settimo governo, cara Rai” per poi salutare con “Bello, ciao” come stoccata a Salvini (sventurato è il paese in cui un canto di libertà e ribellione diventa un’offesa per un ministro della repubblica).
Lui si concede un innocuo “abbiamo aspettato segnali da Marte” e poi mentre gli altri sferrano fendenti si limita a sorridere contrito come quando Luciana Littizzetto dice una parolaccia di troppo o una battuta troppo politica.
Alcuni di Fazio fanno un vessillo di libertà contro la destra cannibale e altri, moltissimi, sospirano di sollievo, qualcuno persino tra gli amici e alleati o presunti tali: lui ha il merito e la coerenza di rimanere fedele a se stesso, immutabile nella sua curiale benevolenza verso il mondo. Intervistati compresi, a cui lui raramente fa la seconda domanda, mai la terza, a volte neanche la prima. Lo conferma con l’ultima intervista, quella al presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, uno che non ama particolarmente il contraddittorio e che le interviste ha fama di riscriverle, e che si concede per il gran finale dandogli una notizia, o meglio l’ufficialità di un segreto di Pulcinella – “Spalletti (l’allenatore del terzo scudetto) si prende un anno sabbatico” – e ricevendo in cambio una chiacchierata in cui ADL può dare lezioni di cinema (memorabile la sua analisi sui film di Scola con Troisi), di calcio, di scienze comportamentali, di come si tratta Carlo Verdone e dell’aurelismo applicato all’universo mondo, senza alcun inserimento dell’intervistatore su informazioni più o meno sensibili (nessuna domanda di mercato sul Napoli, dal ds ai giocatori in partenza; nessuna neanche piccola polemica su una Filmauro ormai residuale negli affari di famiglia che si concentrano sull’asse pallonara Napoli-Bari, neanche sulle parole durissime del patron azzurro sui diritti televisivi calcistici che, in fondo, potrebbero pure passare per Discovery, non si sa mai).
Fabio Fazio se ne va meno rimpianto di quanto potessimo aspettarci e di quanto contava di essere. Probabilmente a causa dell’ultimo rinnovo record e per quella sua attitudine a far sentir troppo comodi i suoi intervistati – geniale il rimprovero di Nanni Moretti “ma lo dici a tutti ‘sei il mio mito!’ dai” -, se ne va mal sopportato a destra e sinistra, neanche degno di diventar vittima di un editto bulgaro. C’è da dire che non ci sono più gli editti di una volta: un tempo Berlusconi faceva fuori dalla Rai Biagi, Luttazzi e Michele Santoro e loro di fatto scomparivano dalla tv e non trovavano casa o quasi, ora Fazio va a Discovery con un contratto che saprà consolarlo della fine del matrimonio quarantennale con la Rai e Lucia Annunziata si dice sia pronta a una candidatura alle europee con il Pd. E per quanto vogliamo strapparci i capelli di fronte all’occupazione della tv di Stato delle destre, come ha già scritto Marco Esposito non siamo di fronte a nulla di diverso per qualità, quantità e modalità da ciò che è stato fatto negli ultimi due decenni (almeno) e spesso dal centrosinistra.
Potremmo anche valutare che il mancato rinnovo – non è stato cacciato, solo non invitato a rimanere – di Fabio Fazio sia un danno erariale. Perché a dispetto del compenso monstre – parte diretto, parte alla società del conduttore ligure -, la raccolta pubblicitaria dei suoi spazi superava di parecchio le uscite che comportava la trasmissione, ma è uno dei nodi della polemica che è partita da diversi giorni e la citiamo per amor di verità, ma conta poco nel ragionamento che intendiamo fare.
C’è invece da fare una valutazione che più che artistica, giornalistica o televisiva è di costume.
Con Fabio Fazio se ne va il servizio pubblico garbato, colto, accomodante e capace di parlare a un pezzo d’Italia vasto, ma non popolare.
Se ne va, se vogliamo, lo stile Rai: quello un po’ affettato ma competente, alla Enzo Tortora, alla Andrea Barbato. Un po’ Portobello un po’ Blitz, Fazio ha l’attitudine di Gianni Minà di creare un pantheon di intervistati e di avere l’ambizione e la capacità di far sedere di fronte a lui chiunque, Pontefice compreso (e con la sua continuità e mantenendo quel livello di ospiti, in Italia non c’è riuscito nessuno, in Europa in pochi), e il desiderio ossessivo di metterli a suo agio. Come Minà, appunto, che poi però ad Argentina ’78 chiede agli organizzatori della dittatura, a Maradona delle sue dipendenze, a Castro delle misure antidemocratiche. Quello che in Minà era empatia e comprensione umana, in lui è stato troppo spesso lusinga e adulazione. Proprio il confronto tra le rispettive interviste a Diego è la migliore delle spiegazioni.
Come Tortora adora piacere alla gente che piace, ha un’eleganza naturale mista a una maggiore ironia ma lo stesso garbo solido e a tratti originale, la capacità di parlare a tutti, senza mai essere volgare (non mi citate Littizzetto, perché se la pensate tale non l’avete capita), dozzinale, qualunquista. Come il mitico e rimpianto Renzo, ama la retorica, il buonismo (che nel frattempo è diventata una parolaccia, chissà perché poi), un uso della lingua curato e mai sciatto.
C’è anche un po’ di Arbore nella tavolata delle ultime edizioni, insomma quella Rai che sapeva farti sorridere e ti intratteneva con brio e arguzia, che non si faceva sedurre dalle sirene della tv commerciale e dalle sue bassezze seriali.
Una tv orgogliosamente boomer e fuori dal tempo, la Rai appunto, nel suo meglio e nel suo peggio.
Con Fazio finisce un’epoca della tv di stato e bisognerà capire se quella che verrà sarà peggiore o migliore. Non si vedono eredi di quella stagione che parte da Bernabé e arriva a Guglielmi, quel cattocomunismo catodico nobile che ve(n)deva il mondo ancora come un’amichevole partita tra Don Camillo e Peppone o come una puntata di Quelli che il calcio e che rifiuta la tv urlata, litigiosa, morbosamente attratta dallo squallore. Se ne va però anche quella sottile ipocrisia di un infotainment consolatorio, normalizzatore, distrattamente impegnato. Sempre e borghesemente dalla parte giusta, ma mai da quella sbagliata che cambia le cose.
Fabio Fazio non è il simbolo di una sinistra snob e radical chic, il baluardo antidestra e neanche il demonio che devasta la tv con le sue interviste che molti definiscono sdraiate. Nel cinema, se ricordiamo, veniva demonizzato Vincenzo Mollica, cronista che nella pavidità critica italiana, spiccava per le sue capacità di arrivare a chiunque e saperlo rendere interessante e affascinate: veniva massacrato perché sempre troppo “buono” nei confronti di film, registi, attori. Ma il suo ruolo era intervistarli e raccontarli, non farne le esegesi su cui altri mancavano. E pagava l’essere il migliore nel narrare quelle storie, quei protagonisti.
Fazio, come Mollica, aveva e ha ragione di esistere. Ma se diventano la punta di un iceberg che sotto di loro si è sciolto, allora diventano loro malgrado il simbolo della mediocrità di un settore. Che sia il servizio pubblico, la critica cinematografica o la cronaca calcistica.
A lui però possiamo augurare, su Discovery, di vivere l’ebbrezza del rischio. Che a Tortora, Arbore e Minà, con tutto l’affetto e la stima, si è sì ispirato, ma con la giusta distanza.
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