Francesco Amato ha esordito al cinema 17 anni fa (Ma che ci faccio qui!), il suo primo cortometraggio ha visto la luce 23 anni fa (Quanto ti voglio), il suo primo documentario risale a 21 anni fa (Vietato sostare sul portone). Eppure è ancora considerato, con i suoi 45 anni, un giovane regista. Al di là dell’accondiscendenza con cui l’Italia prolunga le proprie età dell’innocenza, nel suo caso c’è un motivo, che è l’esordire continuamente. Sì, perché non ha un genere d’elezione, ossessioni autoriali, il suo approccio è costruito su una raffinatezza stilistica europea e uno sguardo nordamericano sulla narrazione e sul suo lavoro, su una firma formale ed estetica al servizio di storie sempre diverse, di toni alternativi, lontani da un certo conformismo italiano nella narrazione cinematografica e televisiva. Su una leggerezza mai retorica, sulla tenerezza del dramma.
“L’importante per me è che ci sia sempre una storia d’amore”, dice spiazzandoti, confermando però una sensibilità che nelle sue opere va da “Lubitsch a Almodovar, da Billy Wilder fino ad Allen: per me se esiste un dio del cinema, è lui”. Lo intercettiamo mentre sta fisicamente andando in sala di montaggio dove sta prendendo forma il suo prossimo lavoro, Santocielo, con Ficarra e Picone, nelle sale dal 14 dicembre.
Cominciamo dalla prossima tappa. Come va con la strana coppia?
Come sì può immaginare, è un po’ presto per noi per parlare di quel film, non mi sento di dire molto perché peraltro non l’ho ancora visto: o meglio, ci stiamo lavorando, stiamo cercando di trovare la misura. Però sarà, insomma, un film con una grande densità comica, molta avventura e una storia romantica in cui non ci sono solo loro, ma altri bravissimi attori: Giovanni Storti, che interpreta Dio, Barbara Ronchi e Maria Chiara Giannetta. Posso raccontare di come ci siamo trovati, benissimo, mi sono sentito molto apprezzato. Ci tenevo a lavorare sulla comicità con i due attori comici italiani che considero più bravi. Inoltre ho degli origini siciliane, per cui passare un tempo in Sicilia e, appunto, lavorare con questo immaginario era il massimo per me.
Continua il percorso di Ficarra e Picone verso un racconto più strutturato e politico e impegnato?
È un percorso che intercetta il mio e certi argomenti, se vuoi, non politici, però che abbiano un impatto sulla possibilità di far pensare la gente sulle condizioni della modernità, è di sicuro qualcosa su cui abbiamo lavorato. È una loro ambizione quella di non fare film che facciano soltanto ridere, com’è lo è per me fare film che non facciano soltanto piangere!
Parla di 18 regali? Film magnifico che a mio parere ha dimostrato che lei non può essere etichettato. 18 Regali è un dramma che sa farti piangere in contrattempo. Come la scena in cui lei accusa il padre di essere complice di una persecuzione, quella struggente della madre che l’accompagna con i suoi regali fino alla maggiore età.
Questo però mi sembra che faccia parte di qualcosa di sbagliato in noi: i maschi piangono sempre nei momenti sbagliati.
O forse i film veramente commoventi sono quelli che fanno piangere i maschi nei momenti sbagliati? In Lasciati andare, si ride spesso nel momento sbagliato. Anzi fanno ridere proprio i maschi, perché sono adorabilmente sbagliati
Mi sa che ha ragione, in mezzo a questo territorio c’è anche Filumena Marturano, un film in costume che è un adattamento teatrale, io credo che i miei caratteri si vedano nella forma più che nelle scelte di racconto: gli esperti di calcio si ricorderanno di quell’allenatore che si chiamava Bora Milutinovic che aveva allenato nazionali di tutti i continenti. Io sono come lui: un’idea, una visione al servizio di tante culture, talenti, contesti diversi. Questo è il mio atteggiamento, sono appassionato, innamorato prima di tutto del cinema e mi piace stare sul set, mi piace farmi sorprendere dalle scelte degli attori, da eventi che non prevedevo insomma, per cui quando scelgo un film mi chiedo solo se là dentro ci sia una storia d’amore, questo sì. E tutti i film che hai citato sono tutte delle grandi storie d’amore.
L’amore per lei è il motore di tutto?
Lo sono i sentimenti. E lo ammetto, non riesco a prescindere dal melodramma, anche nella comicità, pure nel film con Salvo e Valentino c’è un momento fortemente catartico. Così come farei molta fatica ad abbracciare il De Filippo più sarcastico, ma lo trovo straordinario e emozionante quando si dimostra più generoso e apre il rubinetto delle emozioni. Se devo riconoscermi un talento, credo sia quello di mettere gli attori nella condizione di esprimere i sentimenti con libertà.
Gli interpreti con lei vengono valorizzati e portati meritatamente al centro dell’attenzione, come successo con Vanessa Scalera, oppure trovano un cambio di prospettiva, come accaduto a Toni Servillo, che in Lasciati andare ha mostrato come e quanto può far ridere, con un percorso quasi contrario, nello stesso film per Carla Signoris, pluripremiata. Per non parlare di Edoardo Leo, che con lei ha fatto le prove generali come attore drammatico e ora fa Otello o il padre lacerato per Ivano De Matteo
La risposta penso sia banale: non mi pongo dei limiti. Tu hai citato gli attori più prestigiosi, però io sono molto orgoglioso anche delle figurazioni speciali, dei piccoli ruoli. Per tornare a Imma Tataranni, che tornerà il 25 settembre in prima serata su Rai1, credo che oggettivamente si distingua per una scelta di interpreti che tiene sempre conto di capacità interpretative e della voglia di mettersi in discussione e nell’uso di uno strumento fondamentale a costruire un personaggio, l’autoironia. Non conta se la cifra della recitazione sia drammatica o di commedia, credo però che l’autoironia sia una modalità di relazione con gli altri e con se stessi che aiuti a entrare dentro una vita, una storia, una comunità più e meglio di qualsiasi altra.
È anche una forma per destrutturare il loro ego, cioè per mettere il personaggio davanti all’attore?
Vede, l’indicazione che do quando stiamo cominciando un lavoro è che nessuno deve pensare che ci stiamo prendendo sul serio, che vogliamo dire qualcosa di importante. Poi, se questo avverrà, sarà il film che l’ha portato, lo spettatore non deve avere la percezione che siamo stati noi a indirizzarlo. Per me questo modo di stare in scena e di essere interviene sulla macrostruttura dell’opera, sul grande senso delle cose che possono attraversare un film, nei dettagli di una battuta o in un piccolo movimento, voglio che tutti noi cerchiamo sempre di non essere retorici. Quando scelgo un attore, quando gli assegno un ruolo, cerco di capire se è possibile questo tipo di approccio, oppure se siamo molto lontani. Nel secondo caso, meglio non lavorare insieme.
Se l’aspettava questo successo sorprendente e progressivo di Imma Tataranni?
Ci si crede sempre, altrimenti non cominci neanche. Poi il merito è di tutti, anche del fatto che abbiamo dato continuità alla produzione di questi film, ora sono già 18. In realtà ricordo molto bene la mattina in cui, per la prima volta, ci misuravamo con l’audience, alle 1o dovevano arrivare i dati. Ero spaventosissimo, ovvio. Quel giorno, tra l’altro, ci fu un problema tecnico per cui uscirono a mezzogiorno. Pochi minuti prima arriva il messaggio sullo smartphone, tre numeri: 23,2, un dato pazzesco per una fiction nuova con attori nuovi, con un regista nuovo e con dei romanzi che avevano venduto molto, ma non erano firmati certo da Camilleri.
Ci dobbiamo aspettare uno spin off? La giovane Tataranni?
No, ma in realtà nelle prime scene della nuova stagione c’è una ragazzina che interpreta lei da bambina. E pure qui, probabilmente, sta la forza di questa serie, che è andata crescendo fino a toccare il 26 per cento: vogliamo sempre cercare qualcosa di sconosciuto dei nostri personaggi, scoprirli ogni volta diversi, in un rapporto che ci unisce allo spettatore.
Cosa le ha insegnato la tv? La brutalità dei numeri televisivi porta anche la sua narrazione cinematografica a essere diversa?
Una maggiore attenzione verso il pubblico, che però ho sempre avuto. A me piace la pressione di questi numeri – perché poi ricordiamolo, io faccio una tv in cui i numeri sono reali, non su piattaforme che non li comunicano o lo fanno in modo molto “protetto” -, quelle cifre sono un termometro di ciò che fai, chi ti guarda non va sottovalutato, anche se non devi esserne schiavo. L’esperienza televisiva però è molto diversa da quella cinematografica, il cinema è un ritratto temporale e di relazioni, nella storia come sul set, si chiude in un arco di tempo limitato mentre il piccolo schermo assomiglia più al teatro, a una compagnia di giro. Dicono tutti che il cinema è una grande famiglia, ma non è vero, è una gita scolastica, è la tv a essere una grande famiglia. Io mi voglio confrontare con quei numeri, quando esce un film sto attaccato la notte a vedere come vanno gli incassi, qualche telefonata alle sale le faccio pure. E poi la tv per i bulimici come me è un’esperienza fantastica perché usi tutto e tutti, lavori con tutti coloro che stimi, è il luna park della regia. So già che nel mio prossimo film al cinema porterò diversi interpreti che ho avuto in Imma Tataranni, e altri sono già in Santocielo. Sono due mondi che sono parenti, ma anche molto diversi, e devi ricordartelo sempre, altrimenti fai un disastro portando il ritmo dell’una nell’altro, o viceversa. Sono radicalmente differenti anche tecnicamente: la tv ha 25 fotogrammi, il cinema 24, quindi oggettivamente scorre più veloce.
Un’altra costante del suo immaginario sono i personaggi femminili tratteggiati con originalità e coraggio
Sinceramente non è che te la sappia proprio spiegare questa cosa, però la rilevo anche io e credo che il cinema nasca prima di tutto da una forma di curiosità: io volevo fare la rock star, ma canto malissimo; volevo fare l’attore, ma non me lo posso permettere esteticamente. Il regista in fondo che fa? Cerca di avvicinare qualcosa di speciale che lui non è. Cosa c’è di più speciale che io non sono se non una donna? E per questo mi incuriosisce tanto la figura femminile. E poi grandissimi attori maschi mi hanno messo un po’ in soggezione negli anni, mentre le loro colleghe mai.
La soggezione nasceva dal fatto che questi mattatori maschi li destrutturava regolarmente?
È uno strumento per riuscire a mantenere un livello di confronto, diciamo. Perché altrimenti uno come Toni ti fa paura. Non sono un regista alfa, però credo che la destrutturazione faccia parte di quell’altro discorso che ti facevo sull’approccio autoironico che pretendo da me ma anche dagli altri. Non dobbiamo dimenticarci che il regista è una sorta di monarca, che ciò che decide, per settimane o mesi, ha un effetto sulle vite di decine, centinaia di persone. Il modo in cui pensa certe cose, le idee che ha, se sono buone miglioreranno le condizioni economiche di molti, per non parlare di chi quel film lo guarderà. Non è facile neanche umanamente, perché se dal 20 gennaio al 25 agosto tu hai dato ordini, deciso, imposto e poi torni in famiglia, ti rimettono a posto, non puoi fare la stessa cosa.
Scherzi a parte, ci sono i registi impositivi, ci sono quelli che così la vedono e così deve essere e che arrivano molto preparati e poi ci sono i registi come me e credo come altri, a quanto capisco anche Matteo Garrone – che bella notizia la sua candidatura agli Oscar con Io, Capitano – che lavorano diversamente, ovvero cercando ogni giorno il film nei dettagli, in singole intuizioni ed ispirazioni. In tv è più difficile farlo, ma con buoni collaboratori ci riesci. Il regista prima di tutto è quello che mette in ordine la propria e la follia altrui, cioè la prende e la mette in ordine. La creatività non basta, serve la pazzia, serve credere un po’ nel dio del cinema altrimenti neanche ci vai sul set, devi credere in un’ispirazione in qualche modo metafisica che poi permette alle cose di funzionare.
Se uno guarda la sua carriera, è cambiato profondamente, dai documentari iperrealisti a un cinema di finzione elegante e ironico…
L’eleganza, lo stile mi attraggono. Credevo, quando ero ragazzo, in un cinema di verità, di realismo, ho fatto tanti documentari. Poi gente che ne sapeva, con tante ore di volo, mi diceva che andava bene quello che facevo ma una cosa la dovevo filtrare attraverso la mia interpretazione, un’immagine, un racconto, una battuta doveva essere decodificata dalla mia visione. Questo all’inizio spaventa, perché tu non sai se hai un’ispirazione che abbia ragione di esistere.
L’ha portata anche nei documentari, però, perché su quello su Umberto Bossi (Umberto B – Il senatur, andato in onda su Nove) c’è uno sguardo chiarissimo, un ritmo di racconto quasi di finzione, senza togliere nulla alla verità. Il documentario lo sente ancora come un linguaggio fertile? Ha ancora voglia di farne?
No, credo che quello sia un capitolo chiuso del mio percorso. Il documentario su Bossi l’ho fatto perché volevo conoscere meglio il personaggio e volevo avere uno strumento per quando avrei avuto un copione perfetto che ora ho, che fosse uno strumento per aiutare chi avrebbe dovuto interpretarlo a diventare con più facilità quel personaggio.
Un momento. Il suo prossimo film sarà un film di finzione su Umberto Bossi?
Lo spero. Il progetto è questo.
Dobbiamo sapere chi lo interpreterà, il Senatùr!
Sto decidendo (ride) se farlo leggere a Favino o ad Adam Driver.
Buona risposta. Sebbene Favino con i giusti occhiali potrebbe essere credibile. Ma poi rischiamo di finire nello sketch di Martellane-Max Bruno in Boris che dice che “un tempo c’erano i ruoli per gli attori, ora li fa tutti Favino, pure Spadolini”. Non le sembra un po’ fuori tempo come storia?
No, credo che sia il racconto più adatto per interpretare la nostra attualità. Quello che i 5 Stelle hanno fatto col web, loro lo hanno fatto senza internet, con secchi, vernice e manifesti, con il cappio e slogan aberranti, con personaggi epici come Miglio, Borghezio, Leoni. Ma anche lì, va detto, quello che mi interessa è un personaggio femminile. E una storia d’amore.
Nella Lega? Questa sì che è una sorpresa. Donne e amore sembrano le due cose più lontane da Pontida e affini.
Perché dimentichi la storia d’amore di Umberto con Manuela, sua moglie, che nel 2004 quando lui ha l’ictus, finisce per fare le veci di lui. Lei in qualche modo per un periodo della storia della Lega si sostituisce al capo, diventa una Lady Macbeth dopo averlo, da giovani, salvato dall’indigenza, firmato l’atto costitutivo del partito e poi essere stata parcheggiata come madre e moglie a casa per decenni. Torna in sella e si inventa il cerchio magico.
Credo sia davvero interessante indagare quel lato oscuro di un rapporto così emblematico, recentemente mi hanno proposto di fare un film a episodi con altri colleghi sulla figura del maschio occidentale. A dir la verità romano, per essere precisi. Quando ho ricevuto quella proposta ho pensato, per associazione di idee, che mi piacerebbe raccontare la vicenda di Luca Morisi in un cortometraggio.
Se ci pensa, sono tutte figure melodrammatiche, con vene di frustrazione e rabbia, ma anche di tenerezza e fragilità.
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