Ci sono pochi attori, personaggi, serie, opere d’ingegno che entrano nell’immaginario collettivo ormai. Doc – Nelle tue mani, Luca Argentero, il dottor Andrea Fanti sono tra questi.
In un mondo che non ha più un solo canale, programmi o storie evento che determinano un’epoca, e che invece è polverizzato tra piattaforme e media diversi, tra contenuti differenti ed eroi e antieroi che si dividono l’attenzione del pubblico a cui rimangono dentro, quando va bene, per qualche mese, questo medical drama tutto italiano ha saputo entrare con delicatezza e determinazione.
E diventare un evento con ogni suo ritorno tanto da meritarsi, il 18 e il 19 dicembre prossimi, in vari cinema UCI, l’onore di una prima in sala cinematografica (vi saranno proiettati i primi due dei 16 episodi della terza stagione).
In attesa, fremente, dell’11 gennaio, quando la terza stagione partirà su Rai1 e Raiplay. Doc 3, produzione Lux Vide della galassia Fremantle, torna, raccontando il ritrovamento della memoria, o almeno del passato, di Andrea Fanti. A raccontarci questo viaggio, e non solo, è Luca Argentero, che di quel primario è il viso e l’anima e che con il suo sorriso e la sua grinta ha dato vita a uno degli ultimi eroi della nostra televisione. E anche di altre, visto che la serie è stata venduta in più di 50 paesi e presto approderà negli Stati Uniti grazie a Sony.
Noi, Luca Argentero lo abbiamo incontrato proprio su uno dei set di Doc, a Tor Vergata, tra il mitico tetto in cui si consumano confidenze, confessioni e drammi esistenziali del racconto e il camerino.
Siete arrivati alla fatidica terza serie, se l’era immaginato un ciclo di tre stagioni?
Sì, ma solo perché se l’erano immaginato Francesco Arlanch e Viola Rispoli: quando ci siamo seduti a tavolino a fare la prima riunione e mi hanno pitchato la storia (il pitch, nel cinema e non solo, è una presentazione in pochissimi minuti di un progetto complesso), nella loro testa era così. Poi, arrivarci è un traguardo, non era scontato che accadesse, ma è successo e pure con slancio direi, sull’onda dell’approvazione di chi ci ha seguito.
Mi rendo conto anche, però, che questo tipo di approvazione che abbiamo ricevuto ha sovraccaricato di responsabilità la terza stagione: dopo la sorpresa, la bellezza della prima e il Covid che ha dato alla seconda una forza enorme, io nel ricevere le sceneggiature avevo una soglia di aspettativa altissima. Hanno fatto un lavoro straordinario, perché sono riusciti a non deluderla, a non deluderci.
La forza di Doc è che al contempo una grande serie italiana, ma anche qualcosa che andrebbe benissimo su grandi pay tv internazionali. Anzi, la seconda stagione in particolare ha quel respiro lì.
È il motivo per cui è in 50 paesi, la loro bravura più che la nostra è stata proprio quella di trovare un linguaggio sia visivo che di scrittura abbastanza universale e sostenuto anche da una qualità media superiore al normale. E, confesso, è stato quello che ha subito catturato me e Jan Michelini, questa capacità della storia di avere una forte identità originale ma anche un passo diverso da tante altre cose.
Ci sono tre caratteristiche che fanno la differenza: una regia moderna, che è innanzitutto una grande palestra per noi che recitiamo, ci tiene su un livello alto; un livello di scrittura inusuale anche sulla distanza; un cast giovane ma di enorme talento. Ma ora possiamo dircelo a ragion veduta, hai idea di che meravigliosa e pericolosa scommessa sia stata all’inizio, quando nessuno sapeva niente di tutto questo e dovevi fidarti solo del tuo intuito?
Il cast è stato la sorpresa più grande. L’impressione è che lei sia stato Fanti fuori e dentro al set. E così fuori e dentro al set hanno tutti preso il volo.
Io ero il sergente di grado maggiore, erano tutti o quasi ragazzi: Spollon, Malanchino, Saurino, Tabasco, Grannò, tutta gente che se non era la prima esperienza era alla seconda, una mega incognita, perché quando ho accettato io era tutto sulla carta il progetto, ancora non sapevamo quanto sarebbero stati bravi.
Ma, sai, qualcosa il tuo intuito ti dice quando tutti lavorano bene, quando c’è una magia nell’aria che si unisce al fatto che tutto va al posto giusto. Penso alla prima volta che ho sentito la storia, che ho parlato con Pierdante Piccioni (il dottore a cui la storia è ispirata: ebbe un incidente sulla tangenziale di Pavia il 31 maggio del 2012 che gli procurò un’amnesia di 12 anni, facendolo tornare al 25 ottobre del 2001, il giorno dell’ottavo compleanno del figlio, mentre Andrea Fanti il trauma prefrontale lo subisce attorno al 2020, per un aggressione a mano armata, e torna al 2008 – ndr), mi resi conto, ancor prima di leggere i suoi libri, di che opportunità fosse.
Un ritorno alla tv non scontato, per lei che si è costruito una solida reputazione al cinema
Non ricevevo più dal cinema storie che mi interessassero e quelle che arrivavano erano tutte nel circuito della commedia leggera, alcune anche di qualità, ma in un genere che ormai frequentavo da vent’anni. E comunque non è che mi arrivassero script, anche in quel contesto, che finita l’ultima pagina cadevo dalla sedia, che mi facevano pensare “che roba mai vista”. E così mentre sentivo lui raccontare la sua vita, quel buco di 12 anni e come l’aveva affrontato, nel frattempo mi lavorava dentro la prospettiva che Francesco e Viola suggerivano per proporre quella storia. E mi ripetevo che una cosa così, in Italia, non c’era.
E poi io una serie lunga non la facevo da una vita. Avevo fatto Sirene, una miniserie, bisogna tornare a Carabinieri, a 15 anni prima. Nel frattempo è cambiato tutto: l’audiovisivo italiano si è sempre più polarizzato tra grande serialità e cinema d’autore, che non mi cerca così spesso, e il cinema di mezzo che ho un po’ frequentato sta scomparendo. Quel passo raffinato e popolare, ecco, io l’ho ritrovato qui.
È lunare che il cinema d’autore sia stitico nel chiamarla, è ancorato ai vecchi stereotipi?
Ma no, io ho grande rispetto per gli autori e le loro decisioni. Anche perché sono cinque o sei, e magari preferiscono fare affidamento su interpreti con cui hanno già lavorato o collaudati in certi contesti, di cui conoscono profondamente le caratteristiche. La mia non è una recriminazione, amo Doc, la commedia sentimentale, mi piacerebbe andare più spesspo sul cinema d’autore non tanto per gratificazione personale, quanto per il viaggio che sarebbe, per l’esperienza diversa che rappresenta e per quanto sa darmi di nuovo. Penso alle mie esperienza con Ozpetek, Risi, Placido e Comencini e capisco che quel bagaglio che mi sono portato dietro dopo quei film è molto prezioso.
Però, no, non credo ci siano stereotipi che mi sono ancora attaccati. O meglio, non più quelli del Grande Fratello, magari più il fatto che sono piemontese (ride). Scherzi a parte, vivo tra Umbria, Milano e Torino e un certo cinema rimane romanocentrico. Che dire, abbiamo poche occasioni di incontrarci! E poi c’è pure la statistica che non gioca a favore: sono pochi i grandi autori e fanno film ogni tre anni quando va bene. Le possibilità sono numericamente minime, quindi.
Però, ripeto, non ne sono dispiaciuto. Anzi, fammelo dire, sono molto felice di come sto invecchiando!
Doc è stato comprato dalla Sony per gli Usa. Un risultato incredibile. Questo dipende anche dal linguaggio visivo pop ma al contempo molto moderno?
Non posso rispondere al posto della Sony, però posso dirti che per me dopo aver parlato con loro tre, con gli autori e il vero protagonista, decisivo è stato il colloquio con Jan Maria Michelini. Me la ricordo ancora la sicurezza con cui mi ha raccontato la sua idea di regia internazionale. Lui è un matto vero, con la massima naturalezza mi ha fatto vedere le piantine del reparto che stava costruendo, dove erano posizionati i vetri, come aveva intenzione di utilizzare le trasparenze tra una stanza e l’altra per fare in modo che lo spettatore fosse un osservatore all’interno del reparto: l’approccio creativo da showrunner che ha avuto Jan nel dirmi “facciamo un medical che in Italia non è mai stato fatto” – e oggi lo possiamo affermare con decisione, non c’è più imbarazzo nel dirlo, ma solo orgoglio – mi ha definitivamente conquistato.
Ora noi quel benchmark lo abbiamo alzato, ci hanno provato anche altri a fare dei medical e rispetto a noi, non si può più tornare indietro, non puoi rimetterti a raccontare storie come quelle di anni fa, con quello stile. E vedendo il successo internazionale di Doc mi dico anche che dobbiamo cominciare a inquadrare il nostro talento, il nostro posizionamento del mondo, da Doc a Gomorra sono tanti i generi in cui mostriamo la strada come linguaggio, come visione. Possiamo dircelo senza falsa modestia.
A proposito di USA. Che effetto le fa sapere che probabilmente Doc negli Stati Uniti avrà una dottoressa come protagonista?
È strano, lo confesso. La trovo una scelta molto corretta, molto americana, molto in linea con i tempi, penso alla sirenetta nera. In questo momento è giusto così, però è qualcosa che trovo molto interessante e bello e trovo che possa adattarsi bene con l’impianto della nostra storia. Perché è questo quello che conta, che sia Andrea Fanti, un uomo bianco e brizzolato, o una nera lesbica, il percorso narrativo ha una sua forza autonoma così come il motore dell’azione dei protagonisti.
Io mi dò un grande merito: mi hanno regalato un bellissimo personaggio e l’ho intuito subito, tanto da aver lottato per fare Fanti. E lo rivendico.
Un personaggio fuori dagli schemi per la grande servilità della tv pubblica. Fanti è un uomo che fa tanti errori, che prova a riconquistare una moglie che sta con un altro, che nella seconda serie è sospettato, anche dallo spettatore, di reati pesanti. Eppure tu che guardi gli dai credito, come succede in Breaking Bad per il tuo beniamino abbassi la tua soglia di moralità, pensi che “lui può”.
Ha un grado di complessità che va ben oltre il suo irresistibile sorriso.
Hai ragione, e qui la scrittura fa tanto. Noi siamo i primi a vivere questa storia con apprensione, a sentire il brivido di un percorso che diventa scivoloso, pericoloso. Per questo non sappiamo da subito come andrà a finire, per restituire al meglio quel grado di precarietà, di dolore, di imperfezione anche. Tutti i nostri personaggi si trovano di fronte a scelte complesse, durissime, che mettono in discussione i loro valori, sogni, speranze, sentimenti.
Se Fanti, poi, ha questa fiducia, possiamo forse ringraziare la parte più simile a me, quella che amo più del personaggio e. lo dico senza vergogna, che sono felice di cavalcare: l’empatia che sa suscitare, il rapporto positivo che instaura con le persone, qualcosa che io testo i tutti i giorni con gli uomini e le donne che incontro per strada.
Mi piace entrare in connsessione con le persone, di avere quella naturalezza nel sembrarti familiare, quella è una cosa mia e che mi permetto di dire, credo che un altro attore non avrebbe creato.
E non avrebbe nemmeno reso così credibile.
Mi rendo conto che per la strada quando mi fermano c’è proprio un affetto sincero, al di là di Doc, c’è proprio un legame tra me e chi mi guarda. Come se in questi anni si fosse creato un sentimento collettivo positivo nei miei confronti, frutto sicuramente dei lavori fatti, di aver fatto certe scelte, ma anche di come sei fatto te e come ti poni quando sei in televisione.
E questa roba qui si è trasformata in quel lato empatico di Fanti, che è un lato vincente del suo carattere, che lo fa diventare il medico dei sogni, che viene lì, che ti guarda, che ti ascolta, che ti è vicino. E a cui perdoni tutto.
Non rischia di diventare una prigione?
Guarda, potenzialmente Doc potrebbe andare avanti all’infinito e io lo farei volentieri. Allo stesso tempo noi tutti, non solo io, siamo diventati esigenti: è qualcosa di così prezioso questa serie che possiamo fare anche trenta stagioni, ma devono essere tutte di questo livello.
Poi, se intendi che la prigione possa essere la “bontà” di Fanti, ti confesso che oggi, sì, mi spaventa l’idea di fare un personaggio negativo, dopo Doc. Non direi di no, ma ci penserei, perché è un’altra barricata e una scelta del genere comporta mettere in discussione anche questo rapporto che ho instaurato con le persone. Ecco, lo farei un cattivo, ma sentirei, nella scelta, una grande responsabilità. Dovrebbe davvero valerne la pena.
Però io la ricordo straordinario ne Il permesso, dove non era affatto buono.
Tornando al discorso del cinema d’autore, lì ha lavorato a mio favore lo stereotipo del piemontese. Il regista, Claudio Amendola, che è anche un amico, aveva bisogno di chi imponesse al proprio fisico una “tortura” che lo rendesse aderente al suo personaggio e sapeva che io l’avrei fatto: per quattro mesi non mi sono concesso neanche un grissino! E ho lavorato per costruire quella fisicità nervosa, dura, potente.
E poi, per avvalorare quello che ti dicevo, là contavano anche altre due cose: la scommessa del bravo ragazzo che diventa cattivo, che era un trip che aveva Claudio per quel film, e il fatto che ci conoscessimo da anni e sapesse molto di me come uomo e come professionista, avevamo fatto Noi e la Giulia e poi Gagarin a breve distanza l’uno dall’altro. A volte le cose sono più semplici di quanto sembrano e questo è un lavoro basato molto sulle relazioni.
Detto questo, per vedermi in una certa maniera, devi aspettare ancora poco. Vabbè, non mi far parlare.
Beh, dottor Fanti, non scherziamo, ora deve parlare. Ci sta dicendo che vedremo la sua versione Venom?
Vedrai quest’anno, non voglio esagerare dicendo che vedrete il lato oscuro della forza, però si capirà davvero perché, ad esempio, era diventato un primario così stronzo, cosa lo avesse trasformato nel mostro che abbiamo raccontato. Esploreremo tutto ciò che era rimasto indefinito del suo passato. È un po’ semplicistica l’idea che sia diventato cattivo “solo” per la morte del figlio, perché non sta più con la moglie. Cosa lo ha reso così cinico e spietato? Lo scopriremo nelle prime settimane del 2024. Voi, io già lo so!
Quindi anche in questa stagione avremo il momento “macosacazz”? Dopo la sorpresa della prima stagione e il rutilante succedersi di colpi di scena della seconda ci aspettavamo un esame di maturità, una terza stagione tornata fatta di una narrazione più tranquilla, una definizione dei personaggi ancora più profonda magari.
Invece devo deluderti (ride), torneremo di nuovo al “non ci posso credere, non è possibile!” e queste cose non possono che arrivare dal passato, è il nostro ritorno al futuro. È una miniera d’oro alla fine, perché è tutto lì Doc, in quel passato rimasto oscuro, in quei 12 anni di buio, sono loro che muovono il suo universo. Ed è ricchissimo di possibilità, perché lo abbiamo lasciato quasi intonso, risponderemo a parecchie delle domande sollevate nelle prime due stagioni.
Prima di guardare al futuro, insomma, dobbiamo fare i conti con il passato.
Mi rendo conto che tutto questo renderà queste 16 puntate doc-centriche, però permetterà a tanti personaggi anche, e questa è un’altra idea geniale, di tornare, perché è un peccato averli persi. E in questo senso c’è un legame profondo con gli inizi. E poi, ovviamente, ci sono i casi di puntata che sono sempre fighissimi! Mi fanno impazzire, mi portano a una serie che amo molto e che alla fine un po’ da reference qui mi fa. E non è Dr. House, come pensi, ma The Good Doctor, di cui ero diventato fan ai tempi di Copperman, per l’affinità tra i due personaggi.
Eppure sul set si sono viste tante facce nuove.
E questa è la cosa meravigliosa. Da una parte tornano personaggi iconici che drammaturgicamente era giusto lasciare indietro ma che ancora avevi bisogno di ritrovare, dall’altra ci sono tanti nuovi specializzandi: questo ricambio nel cast rende già di suo tutto molto nuovo. D’altronde due si sono sposati, due sono morti, se entri nella squadra di Doc non puoi mai restar tranquillo.
Però, tutto questo che mi dice, e in particolare il ritorno al passato, a questo punto rende difficile un Doc 4?
No, come ti ho detto semplicemente Doc 4 dovrà essere una bomba se vorrà esistere, dovremo avere un’idea che terremoti noi e il pubblico, perché non possiamo più tornare indietro sulla qualità, dobbiamo metterci d’accordo che dobbiamo fare una figata.
L’unica differenza è che Doc 3 faceva parte del ciclo naturale di questa storia, potevamo accettarla a scatola chiusa, con una eventuale quarta stagione si aprirà qualcosa di diverso. Ma non sono solo io a pensarlo, i primi che la vedono così sono gli autori.
Quindi per quanto riguarda lei, nessuna paura di rimanere intrappolato dentro il primario Andrea Fanti?
Anzi, io sarei felicissimo di fare pure Doc 10, con questo spirito: trovo invece che sia una grandissima fortuna in una carriera trovare un personaggio così, in cui le persone ti identificano così tanto, è proprio un privilegio.
L’aveva capito che sarebbe diventato IL personaggio?
Figuriamoci. E conta che noi siamo rimasti in una bolla. Perché se è vero che sui social, dai messaggi di amici e colleghi potevi intuire che era piaciuto, il successo popolare invece era impossibile da capire: siamo andati in onda durante il Covid, non potevamo neanche uscire a fare la spesa. Poi a settembre-ottobre giro Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di morto, anzi prima, a fine estate torniamo sul set di Doc per finire le ultime puntate della prima stagione e usciamo per la prima volta a cena. E lì veniamo assaliti da un affetto incredibile, lì ho capito il concetto di “prima e dopo”.
Sai però da cosa l’ho capito che era successo? Dagli amici storici, quelli che di tuo hanno visto due film su cinquanta, e solo perché li hai invitati alla prima, che ti chiamano e ti dicono “ma cosa hai fatto? Ma non sai, l’ho visto tutto Doc e ora lo sto rivedendo con moglie e figli”. E poi che ti fermano tutti, che hai unito tre, quattro generazioni.
Qui sul set la trattano tutti come se fosse il Dottor Fanti anche nella vita
Ti confesso una cosa. Quando ho iniziato quest’avventura mi sono detto che essendo io l’anziano del gruppo, avrei dovuto fare un po’ il capocomico, creare una famiglia, anche magari in modo un po’ paraculo, da piemontese falso e cortese. In poco tempo, però, siamo diventati una famiglia, l’affetto vero ha superato di gran lunga l’esigenza professionale, questi ragazzi giovani e bravissimi sono diventati speciali per me.
E io per loro ero quello con più ore di volo, quello a cui chiedere un consiglio, non solo professionale. E ora mi ritrovo a commuovermi davanti alla tv perché Simona Tabasco vince un premio negli Stati Uniti, con lo stesso orgoglio del fratello maggiore che ho quando vedo Pierpaolo Spollon in una nuova serie o a teatro o Saurino in in film o Beatrice (Grannò) e Simona in The White Lotus. D’altronde abbiamo passato, tutti noi, quattro anni in reparto fianco a fianco.
L’avrebbe fatto così bene, il dottor Fanti e il capocomico, se non fosse diventato padre?
Guarda, è una domanda molto intima, ma rispondo. È ancora più sottile la cosa. Io tutta la prima stagione dovevo andare sul set tutto il giorno a piangere un figlio morto quando mia moglie era incinta. Facevo tantissima fatica ma mi ha aiutato molto perché è stato un cross di vita e lavoro fortissimo e pesantissimo (gli occhi si inumidiscono, lasciando trasparire il dolore di quelle settimane).
Poi mi è nata una figlia, è cresciuta, è venuta sul set durante la seconda stagione. Io continuavo a parlare di un figlio che non c’era più e pochi minuti dopo, o prima, a prendermi cura di una figlia invece che era grande e poi a proteggere i miei ragazzi con lo stesso amore paterno con cui uno si prende cura dei propri figli.
Posso fare una provocazione e dire che se è vero che diventare padre mi ha aiutato per questo ruolo fuori e dentro al set, ma ancora di più essere il dottor Fanti in reparto e Luca su questo set mi ha preparato meglio a essere padre.
È stato uno scambio. Sono certo che questa cosa, in senso assoluto, abbia avuto questo tipo di esito perché è capitato veramente in un momento giusto della mia vita e della mia maturità come essere umano e come artista, non solo come attore.
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