Corso Salani, anche lui morto prematuramente, alza un telefono pubblico. E detta un pezzo. È l’ultima, splendida scena de Il muro di gomma di Marco Risi, uno dei suoi film più belli, fondato proprio sul lavoro alacre, infaticabile, tenace di Andrea Purgatori. Il cineasta aveva voluto per quel ruolo qualcuno che avesse scritto sulle rughe di una faccia irregolare una storia di impegno, di ossessione e d’amore per il proprio lavoro e il suo paese, di forza morale, oltre che il giornalista stesso come sceneggiatore (scriverà molto per il cinema, per Risi farà anche Fortapasc da Amenta a Di Robilant metterà la penna su molto del cinema, e della tv, civile sulla mafia). Corso Salani, regista e attore, le aveva, così come quel giornalista che di Ustica, come di Emanuela Orlandi – è sempre Purgatori il vero protagonista di Vatican Girl, che ha spopolato su Netflix e probabilmente è stato determinante per la riapertura del caso da parte di Bergoglio – e della verità in generale, storica e persino comica, aveva fatto un caposaldo della sua professionalità.
Che sia consentita una sola, piccola, brevissima digressione personale. Se chi scrive fa questo lavoro è per Gianni Minà e Andrea Purgatori (il secondo, peraltro, ha salutato il primo, che lo ha anticipato di pochi mesi con un affettuoso ed eloquente “Ciao amico mio, quante battaglie”). Per l’empatia del primo e il rigore del secondo, che però sapevano mischiarsi, capaci entrambi di essere uomini di bellezza e spettacolo, perché amavano, come un altro mito, Pippo Fava, essere tanto, ovunque e senza aver paura di non prendersi sul serio, quando necessario. Ma la digressione è un’altra: mio padre, Manlio, non ha una grande fiducia nei giornalisti, soprattutto quelli italiani. Non me la nasconde neanche ora, che il figlio fa questo lavoro.
Faceva eccezione per due mostri sacri: Enzo Biagi, di cui da piccolissimo mi mise in mano lo struggente e tagliente articolo in difesa di Enzo Tortora (“Enzo ti, ci conviene che tu sia colpevole”) e Andrea Purgatori di cui mi fece vedere, ancora minorenne, uno splendido speciale in tre puntate sulla Rai sulla guerra in Jugoslavia tratto dalla BBC e appunto commentato da lui con diversi ospiti in studi, su tutti Enzo Bettiza.
Sono per metà sloveno e so due cose di quel conflitto: metà delle persone non hanno idea neanche del nome esatto degli stati che ne furono coinvolti (la mia Slovenia divenne spesso Slavonia e a volte Slovacchia), l’altra metà non ci ha capito comunque nulla, politici e intellettuali compresi. Lui, però, subito, come solo Antonello Piroso ha saputo fare, ne comprese sfumature e complessità e ne fece un affresco degno dei suoi, che poi sarebbero divenuti meravigliosa abitudine settimanale su La7 con Atlantide (che male pensare che non ci sarà più, lui ma anche la trasmissione).
Ad Andrea lo dissi che era uno dei pochi giornalisti su cui andavamo d’accordo mio padre ed io, in una trasmissione a Radio Rock in cui presentava il suo ultimo bellissimo, tesissimo (e meritevole di un adattamento cinematografico) Quattro piccole ostriche. Tirò fuori aneddoti meravigliosi sui Beatles e una conoscenza musicale straordinaria. Era il 2019 ed era il suo ennesimo esordio, nella narrativa.
Era tante cose Andrea Purgatori, ed è ingrato riassumerle tutte. Gli autori cinematografici lo hanno avuto come consigliere e la Siae come riferimento, è stato presidente delle Giornate degli Autori ma anche di Greenpeace Italia, ha seguito più guerre di quanto possiamo ricordarne e tutte fondamentali per la costruzione della coscienza collettiva dell’era moderna: tra le tante, Libano 1982, Guerra del Golfo 1991, le rivolte in Tunisia e Algeria, l’Intifada. Mafia, Moro, Orlandi, Ustica sono state le sue ossessioni “eterne”, così come anche la tv, che ha percorso come giornalista d’inchiesta ma anche come autore (e attore) comico. Aveva un fiuto per intuire il genio negli altri, fossero maestri riconosciuti o autori che ci hanno messo troppo per affermarsi.
Con Corrado Guzzanti ha collaborato ne Il caso Scafroglia, in Aniene e Fascisti su Marte, i lavori più folli, coraggiosi, estremi di quella factory. E come dimenticarlo come attore – c’è in tanto cinema italiano – nella parte di uno dei gerarchi, il camerata Fecchia, proprio in Fascisti su Marte, interprete da cinema muto alla Buster Keaton, sempre col fido busto del Duce a rimorchio nei loro viaggi fasciatissimi e galattici. Con Alessandro Aronadio si è dilettato a fare sempre almeno una posa e ci piace ricordarlo nel geniale Io C’è, rabbino con barba lunghissima, come sempre ieratico e autoironico contemporaneamente, divertito nello sfatare ogni (pre)giudizio su di sé, ma serissimo anche in una singola posa. Pure in Boris, in cui era il serioso e professionale avvocato Kalemzuck, a cui tocca dire, a produzione e regia, che l’insopportabile Cristina Avola Burkstaller (Eugenia Costantini), giovane diva radical chic e con pretese e boria rari, deve lasciare Gli occhi del cuore.
Ha lavorato con Marco Paolini al Teatro Civile, nella stessa vita ha vinto una quantità di premi impossibile da ricordare (compreso Nastro d’Argento e Globo d’Oro). Ma ciò che più dice di lui è che due di essi sono dedicati ad Altiero Spinelli ed Ernest Hemingway. Ed è difficile trovare un artificio più efficace per far capire lo spettro morale, politico, giornalistico, autoriale di Andrea Purgatori in modo più efficace se non tirando una linea tra questi due nomi, vite, direzioni, visioni.
Con Andrea Purgatori se ne va un pezzo di giornalismo e di storia che senza di lui, semplicemente non si farà più. E non solo per la serietà del cronista – quello di un quarto di secolo al Corsera, quello del successivo quarto di secolo soprattutto, ma non solo in tv -, se ne va uno stile garbato e deciso, coraggioso e curioso, mai falso modesto e neanche presuntuoso. Lui muore a 70 anni, ma avendo vissuto quattro vite e fino all’ultimo con il gusto della scoperta (ricordo la felicità per le recensioni positive a Quattro piccole ostriche, suo primo romanzo che amava come un bimbo e che gli regalava insicurezze che non immaginavamo neanche potesse arrivare). Noi perdiamo un patrimonio umano e professionale infinito, necessario per formare un paese che con verità e storia ha un rapporto ambiguo e infantile.
Mi pento solo, dopo quella trasmissione, di essermi fatto vincere dal timore reverenziale e non aver seguito il comune desiderio di una carbonara. Ma un mito è un mito e invidierò chi ne conquistò la stima, lui che con quel viso unico nel suo essere “meravigliosamente brutto” (me lo disse lui, sapendo il fascino che in quello stesso momento esercitava su tutti i presenti) sapeva far innamorare tutti. Con una battuta, uno sguardo, un commento, fosse in uno studio televisivo, radiofonico, in una writing room, su un set o in un convegno.
Buon viaggio Andrea, parti per Marte, pianeta rosso bolscevico e traditor, e salutaci i mimimmi.
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