L’eterno e sempre vivace dibattito sull’influenza delle opere d’arte e cultura – soprattutto quelle in video, del cinema, della tv e dei videogiochi, dato il loro maggiore impatto – nei comportamenti delle persone, si rinnova spesso e di solito è dedicato all’influenza che si teme negativa, in particolare sulle persone più giovani. È buffo che chi la nega e la sottovaluta non si accorga mai della contraddizione con la contemporanea considerazione – su cui invece siamo tutti d’accordo – che le suddette opere possano avere un’influenza positiva: se quello che si legge in determinati libri, o che si vede in determinati film, può far diventare persone migliori, perché con altri libri o altri film non dovrebbe poter accadere il contrario?
Opere “pericolose” o no?
È una rimozione che si spiega facilmente: ammettere i possibili pericoli dell’esposizione ad alcune opere implica dare il destro a chi predichi – a ogni rinnovo di discussione – che quelle opere vadano limitate, controllate, tagliate, vietate, perché sono “pericolose”. Ma le due cose vanno rivendicate come indipendenti: l’effetto della cultura sulla formazione dei nostri pensieri non deve essere un ostacolo alla libertà di ogni espressione di cultura (coi limiti di predicazione dell’odio e incitamento alla violenza che cerchiamo faticosamente di definire). Altrimenti si finisce per usare un argomento ancora più fragile, perché falso: negando che le lezioni che traiamo dai film o dai libri possano essere cattive lezioni, per qualcuno.
Non pensate solo a “cattivi esempi di violenza”, che di solito sono al centro delle cicliche e sbrigative polemiche. Nella storia del cinema italiano mi vengono in mente almeno tre casi celebri di lezioni disdicevoli che hanno molto attecchito presso una parte di pubblico, per debolezza – voluta o no – della confezione ironica con cui sono state impartite, facendoci diventare peggiori anche se non violenti. Più ignoranti, più egoisti, più pigri. Tre famose citazioni che sono diventate una legittimazione per comportamenti che poi nell’ultimo decennio hanno conosciuto ulteriori e più generali legittimazioni, iniziate con quei film, in un certo senso.
Musica andina e cori russi
La prima la conosce chiunque, malgrado qualche equivoco sulla sua esatta trascrizione: “Per me la corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”, dice Paolo Villaggio nel Secondo tragico Fantozzi, ricevendo i leggendari novantadue minuti di applausi e decenni di consensi. Nelle intenzioni volendo certo rappresentare un esausto fastidio verso la poca leggerezza di certi milieu culturali e delle loro fascinazioni (condiviso pubblicamente in altre occasioni: “la musica andina che noia mortale”, Lucio Dalla; “non sopporto i cori russi… neanche la nera africana”, Franco Battiato), ma concorrendo di fatto al successivo sdoganamento revisionista dei film di Alvaro Vitali, del “trash”, e a tutta la demolizione della cultura “alta”, dell’istruzione e poi della scienza stessa che ci hanno portato dove siamo oggi, in totale sintonia con i demagogici sproloqui di Renato Brunetta contro gli intellettuali e alla deriva “ignorantista” del dibattito contemporaneo.
La corazzata Potemkin (nel nome reale del film) è un capolavoro del cinema alla cui visione è lecitissimo annoiarsi: di solito per ignoranza, ma è lecita anche l’ignoranza (a me non piace Yesterday, non avrò capito qualcosa). Ma non è una cagata pazzesca nemmeno da lontano (non più di quanto si possa dire “questo lo so fare anch’io” di certe opere d’arte), e quella battuta è diventata la rivendicazione orgogliosa della propria ignoranza, in un unico percorso di certezze che oggi ci convince che la pandemia l’abbia creata Bill Gates.
Il peggio che è in noi
La seconda esecrabile legittimazione del peggio che è in noi, a sua volta nel pantheon delle citazioni famose del cinema italiano, è speculare a quella fantozziana e viene da Nanni Moretti in Caro Diario (Moretti ne ha dette parecchie che ci ha fatti sentire speciali nelle nostre più banali vanità): “mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza”, dice fiero e soddisfatto, l’apparente rammarico della sua premessa (“una cosa molto triste”) del tutto artificioso e ipocrita.
Solo che il compiacimento dell’essere minoranza è una vanitosa giustificazione di un fallimento, oltre che una chiusura verso il mondo: certo che si può essere minoranza, capita continuamente, ma c’è poco da esserne contenti. Vuol dire non essere capaci – o non volerlo – di coinvolgere altri nei nostri pensieri, nelle nostre opinioni, nei nostri gusti, nelle nostre sensibilità. Vuol dire rinunciare a migliorare il mondo, se si crede in qualcosa di buono (se si crede in qualcosa di cattivo le ragioni per farsi un esame di coscienza diventano altre): vuol dire riconoscere la debolezza delle proprie idee, e viverla come un successo invece che come un’umiliazione, per perdonarsi di essere contromano in autostrada e per conformismo dell’anticonformismo. Quelli che dicono “se mi criticano tutti vuol dire che ho ragione”.
L’alibi del non prendersi sul serio
Più di recente, terzo caso di pessima lezione che non vedevamo l’ora di fare nostra e sentirci giustificati, è arrivato il personaggio di Jep Gambardella nella Grande bellezza di Paolo Sorrentino: che ha maggiori complessità dei due precedenti, e non raccoglie necessariamente immedesimazioni e giudizi indulgenti da parte degli spettatori, salvo che quando abbandona con grande volgarità Isabella Ferrari raccontandosi soddisfatto che “non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”. Dichiarazione di vile egoismo che a sua volta diventa alibi per fregarsene degli altri, e che ha qua fuori tra noi estesissimi pubblici felici di condividerla per ogni esigenza.
Certo, lo so cosa pensate, alcuni di voi (gli sfruttatori abituali delle suddette citazioni, soprattutto): che la sto prendendo troppo sul serio: peraltro a proposito di personaggi e film che in modi e misure diverse ci hanno fatto divertire. “Ma fattela ‘na risata…”. Prendere le cose troppo sul serio – è vero – è stato a lungo un rischio degli insegnamenti che ricevevamo, e bene facemmo a dire “una risata vi seppellirà”. Sbagliammo solo pronome: era “ci”.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma