Ricordate la guerra in ex Jugoslavia, quella in cui pavidamente intervenimmo prima poco e male, poi con le bombe e infine delegando come sempre agli Stati Uniti la risoluzione draconiana e sanguinosa del conflitto? E l’uso della prima persona plurale intende “noi europei”.
Non è detto che dobbiate, perché pochi capirono il senso, l’origine, i confini, le cause, le conseguenze di quel conflitto – tra questi il solito Andrea Purgatori – e la memoria storica di quel periodo e del massacro di Srebrenica è stata calpestata fin dall’inizio, per alleanze pelose (pensate alla Francia legatissima alla Serbia, all’Italia che si schiera con Slovenia e Croazia, ma non dimenticando gli interessi nel resto del territorio) e interessi che poco avevano a che fare con quelle terre martoriate ben prima di quella guerra da scontri fratricidi, faide secolari, ossessioni di grandezza che replicavano passato remoto e prossimo (la Grande Serbia, tuttora celebrata con il gesto di tre dita persino negli stadi).
Srebrenica, chi l’ha raccontata
Si è raccontato poco quel massacro continuo di anni, nonostante fosse nel cortile d’Europa – ancora più vicino dell’attuale invasione russa in Ucraina – perché c’erano troppe responsabilità, complicità e troppo pochi interessi economici in ballo. Ed è così che si consumò, come in Rwanda, un genocidio nel silenzio di tutti, rotto mediaticamente da pochi giornalisti eroici e rigorosi e sullo schermo, grande e piccolo, da due italiani. Giacomo Battiato e Antonello Piroso.
Che c’entrano un regista di cinema e il miglior anchorman televisivo e radiofonico degli ultimi decenni (che, è vero, un passaggio al cinema d’attore l’ha pure fatto)? Hanno entrambi raccontato con coraggio e dovizia di particolari che altri hanno voluto ignorare, per paura o incapacità, il massacro di Srebrenica, il più aberrante crimine di guerra compiuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.
Compiuto, peraltro, con lo stile nazista: una fetta di popolo, i bosgnacchi, rastrellati, catturati e divisi per età e genere. Ovviamente con la solita scusa che i maschi dovessero essere utilizzati per lavori forzati o per essere arruolati. E poi un genocidio – riconosciuto come tale dal tribunale de L’Aja, perché diretto a operare una pulizia etnica premeditata – che dura 16 giorni (ma è tra l’11 luglio e il 19 che si concentrano le violenze più feroci, tra il 13 e il 15 il 90% degli omicidi, il 10% serviva per spostare i cadaveri delle altre vittime fino all’ultimo).
Perché anche se hai centinaia di uomini, è difficile uccidere migliaia di persone, trovare lo spazio di accumularle, poi sezionarne i cadaveri e organizzare la logistica per far sì che ogni morto fosse diviso in almeno tre o più fosse comuni (quando non sezionati, ci pensavano i bulldozer), così da rendere l’habeas corpus quasi impossibile e quindi rimanere impuniti. In realtà se la presero persino comoda: gli ultimi dei circa 6500 corpi “ricomposti” anni dopo furono trasferiti nelle 8 fosse comuni di Zaleje fino a novembre 1995.
Il monologo di Antonello Piroso
Quei giorni, appunto, furono raccontati con coraggio, dolente rigore e straordinaria capacità espressiva – oltre che con un titanico lavoro di documentazione – da Antonello Piroso in Srebrenica 8372, dove il numero sta a precisare la quantità insopportabile di uomini uccisi. Uno dei monologhi (bellissimo anche quello su Tortora, per citarne uno) con cui il conduttore e ideatore di trasmissioni cult e inimitabili come Niente di Personale e Omnibus (ma quanto siamo orfani anche di Ahi Piroso) coltivava quello che chiamava il “vizio della memoria”. Scarno nella scenografia, preciso nel racconto, profondo e indignato senza essere mai retorico. Quello speciale è storia della tv e Storia con la s maiuscola.
E arriva il 14 settembre del 2011 quando tutti hanno trovato più conveniente dimenticare quel massacro, mentre si parla per i colpevoli di ammissione all’Unione europea e ormai tutti hanno rapporti politici ed economici con i complici dei colpevoli (solo 50 furono portati alla sbarra, prevalentemente i mandanti).
Se vi fa paura quel numero, 8372, ce n’è un altro, apparentemente più anonimo, che non dovete dimenticare. 819. Sembra un autobus. E in fondo, non siete molto lontani dalla verità. Perché la Resolution 819 era quella risoluzione Onu che proteggeva Srebrenica e la rendeva zona franca e quindi inattaccabile.
Ma, si sa, i caschi blu, spesso, sono costretti da interessi politici e dalle “inazioni unite” come le chiamano alcuni, a testimoniare l’orrore immobili (sempre come in Rwanda). Qui i 600 del contingente distaccato nella zona incriminata dovettero addirittura subire l’umiliazione di essere bloccati, resi inoffensivi e appunto spediti altrove. Pare con qualche pulmino. Resolution 819 è anche il film bellissimo e atroce di Giacomo Battiato con Benoit Magimel protagonista assoluto. Quest’ultimo interpreta Jacques Calvez, eroico poliziotto 34enne che si offrì come volontario nell’indagine su quella strage – allora la chiamavano “solo” così – dopo che un sopralluogo nei luoghi dell’orrore lo portarono a trovare due braccia. E un ufficiale serbo bosniaco con un disincantato cinismo gli disse “due arti non fanno una vittima”. Cominciò una ricerca matta e disperatissima, fatta di raccolte di testimonianze (madri, sorelle, mogli) a cui far corrispondere corpi.
“Safe heaven”, ossia l’inferno in terra
Ebbe un’intuizione, geniale. Un’ispezione aerea. Così trovò una dozzina di fosse comuni diverse dalle quasi 4000 disseminate nella ex Jugoslavia (in cui probabilmente riposano i quasi 28000 desaparecidos di quella terra). Erano diverse perché la terra risultava più smossa – si scoprirà che erano troppo “piene” – e perché alcune di esse avevano la terra e le vegetazioni più aride, visto che Mladič e compagni per far prima, alla fine, avevano bonificato la zona, le zone incriminate con 30000 litri di benzina. Altrimenti come spingi quasi 8400 persone a riparare a Srebrenica che in codice, per quella risoluzione, veniva chiamata “Safe heaven”?
Sì, avete letto bene. L’inferno in terra era soprannominato paradiso sicuro. Piccola spigolatura: a contribuire a raccogliere tutto quel carburante contribuirono i caschi blu che, ingenui, erano convinti servissero per i cingolati. Che andavano a diesel.
Jacques Calvez a quel punto con un manipolo di volontari eroici decise di aprire quelle fosse comuni. E in loco e in altri luoghi sicuri radunò quelle ossa: con l’aiuto di poliziotti, anatomopatologi e altri professionisti per mesi, anni, li ricompose. Milleduecento persone rimasero anonime, ma le altre ebbero un nome. Cominciò il processo su quell’incubo iniziato il 9 luglio con i rastrellamenti, l’11 con l’inizio dell’eccidio e chiuso con l’ultimo carro armato andato via dalla zona il 25 luglio 1995. Il giorno in cui il mondo poté tornare più serenamente a far finta di niente.
L’ultimo racconto utile, lo fece Buffa, in un Festival. Federico Buffa raccontò che nel 1994 Ana Mladič, figlia prediletta di Ratko, il boia dei Balcani che si macchiò di quel genocidio, partì a primavera per il viaggio di fine corso. È felice, ma sul treno tra Belgrado e Mosca i suoi compagni di corso le raccontano del padre. Sono sloveni, croati, bosniaci, di quei tempi ancora c’erano isole felici in cui i ragazzi si parlavano. Al ritorno Ana ha continui mal di testa, non parla con nessuno. È sconvolta. Scende dal treno. Corre a casa. Non c’è nessuno. Sa dove il padre tiene la pistola Zastava. La prende. Si spara alla tempia. È il 1994. Un anno prima. A lei sono bastati i crimini di guerra “normali” di quel boia per condannarlo. Anche se era suo padre. Soprattutto perché era suo padre.
E condannarsi con un atto di dolente coraggio civile, la protesta più estrema. E forse sa che si eviterà gli orrori peggiori, così.
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