Billie Eilish ha fatto coming out. No, le hanno fatto outing. Non è una notizia, non sono affari nostri, ma non ci abitueremo mai. Il giornalismo mondiale è la piazza di una provincia ottusa in cui il privato è pubblico ma il pubico non è mai privato. Non smetteremo mai di aver voglia di guardare dalla toppa della serratura, non smetteremo mai di indagare, commentare, magari anche criticare ciò che non ci riguarda.
E non smetteremo mai di avere media che per qualche click, dollaro, like in più seguirà questi bassi istinti.
Passi Belèn che decide di informarci sulla dozzina d’amanti dell’ex marito, passi Ilary Blasi e i suoi 80 minuti di telecronaca del suo matrimonio e del tradimento subito, per lo meno lì ad aprire la porta è uno dei diretti interessati.
Ma quanto fatto da Variety con Billie Eilish – sia chiaro, non è un attacco alla testata ma a un modo di fare mediatico-planetario – è insopportabile.
In una lunga intervista di Katcy Stephan, giornalista e social media editor di Variety (ed è questo secondo ruolo che probabilmente nel trattare il contenuto ha condizionato il comportamento), a un certo punto la cantante 21enne, sette Grammy e un Oscar (e un altro probabilmente in arrivo), si lascia andare a una bellissima riflessione. “Sto diventando una persona che amo davvero, sto facendo cose di cui vado fiera. In un certo senso credo di essermi svegliata solo adesso”. Per poi specificare “non ho mai sentito di potermi relazionare molto bene con le ragazze. Le amo così tanto. Le amo come persone. Sono attratta da loro come persone. Sono attratta da loro per davvero ma sono anche intimidita dalla loro presenza e dalla loro bellezza”.
Frasi che avrebbero potuto aprire dibattiti profondi, soprattutto perché a dirle è una ragazza giovanissima, che da quando è preadolescente è famosissima, che ha fatto un lungo e importante percorso musicale e umano, diventando anche un esempio per molti per come ha rivendicato la sua femminilità, il diritto a vestirsi e a mostrare il corpo come desiderava, un processo di autodeterminazione attento e costante.
Billie Eilish poi, banalmente, ha un’età che per tutti è difficilissima e quello che ha detto narra un disagio e una sensibilità che può portare tanti ad immedesimarsi, a sentirsi meno soli.
Ma la testata che ha pubblicato l’intervista decide che quello è un coming out sull’orientamento sessuale dell’intervistata. E non solo lo presenta editorialmente in questo modo, ma nell’evento che organizza e in cui la pop star è invitata e premiata, alle 11 del mattino, sul red carpet decide di farla parlare con una giornalista lesbica che tira fuori il suo privato per dibattere di quello di chi ha di fronte.
Un outing, pure ipocrita.
Un agguato insopportabile e violento. Detto che la stessa frase di un uomo (ipotizziamo: Tom Cruise) sarebbe stata trattata con maggiore accuratezza, sottolineandone le sfumature e non saltando a conclusioni (è già successo), con che titolo parole come quelle vengono piegate a diventare uno scoop, un’intrusione nella vita sessuale di un’artista?
Violenza di genere è anche e soprattutto questo, trattare il corpo e i sentimenti di una persona come una slot machine di views, farne l’argomento incontrollabile di tendenza di un pianeta, esporre una giovane donna di 21 anni a una pressione insostenibile per chiunque su qualcosa che dovrebbe essere solo suo.
E se va solo ammirata Billie Eilish che con equilibrio e durezza afferma sui social “Non avevo capito che la gente non lo sapesse. Per me è sempre stato ovvio”. E ancora “Grazie Variety per i premi ricevuti e anche per avermi fatto outing (dichiarare l’orientamento sessuale di una persona senza il suo consenso, ndr) alle 11 di mattina su un red carpet invece di parlare di ciò che conta davvero. Mi piacciono i ragazzi e le ragazze, lasciatemi in pace su questo, per favore, perché letteralmente, non importa a nessuno. Ascoltate What I gas Made for? invece“. Come peraltro facciamo da quest’estate, da quando l’abbiamo sentita in Barbie.
Il tutto a commento di una foto eloquente. Le sue gambe con pantaloni e slip calati mentre è seduta, presumibilmente a espletare le sue funzioni corporali. Quasi a dire “volete il mio privato? E allora prendetevelo tutto, non solo quello che vi fa comodo o solletica la vostra curiosità morbosa”.
E tralasciando che Billie Eilish tutto questo l’ha subito da una giornalista, una videoreporter per un periodico che ha una codirettrice, tanto per sottolineare come certi meccanismi sono introiettati da tutti noi, femmine e maschi, bisogna riflettere sullo stato di salute del giornalismo e ancora più a fondo su cos’è il panorama mediatico ora se non una piazza di paese incontrollata, in cui gli istinti peggiori scorrazzano selvaggi, senza alcun limite o confine, deontologico o semplicemente umano.
Una violenza verbale e comunicativa che è in diretta continuità con “Turetta che voleva bene a Giulia, le faceva anche i biscotti”, con un femminicidio che deve essere sempre giornalisticamente romanticizzato (ma così non è stato, andate a controllare, per Vita di Bono che ha ucciso il marito e poi si è suicidata: il suo non era troppo amore, gelosia comprensibile, lui è una vittima e non complice delle fragilità della compagna, guarda un po’).
Una violenza con cui una riflessione profonda e sfaccettata viene semplificata e mercificata, senza alcuna attenzione per chi ne subirà le conseguenze.
Viene in mente Asia Argento, quando ammise che di Weinstein ha parlato solo quando si è sentita abbastanza forte. Che a 20 anni essere investita da quell’evento, sostenere una denuncia per violenza sessuale in quel mondo sarebbe stato difficilissimo, forse insopportabile. Che avrebbe potuto pure non reggere di fronte ai giudizi (che infatti sono puntualmente arrivati comunque e con una ferocia inaudita).
Billie Eilish è una donna straordinaria. Billie, nonostante i suoi 21 anni, reggerà l’urto della nostra morbosa ignoranza, della voglia del mondo di farsi i fatti suoi. Ma quante e quanti, da questa violenza istituzionalizzata che troviamo nelle scuole, nei posti di lavoro, ovunque vengono schiacciati? Solo perché una società provinciale e patriarcale ha bisogno di dire “lesbica”, “gay”, “liquido”. Di definire. Peccato che quelle etichette servono, se si vuole, a definirsi. Non a chi è al di fuori, per rinchiudere qualcun altro dentro una parola.
Questo è il giornalismo del “lo fanno tutti”, “la gente vuole sapere”, “sono personaggi pubblici” e quindi devono subire quello che noi non permetteremmo a nessuno.
Creare un humus intellettuale che si nutre di questo, crea mostri.
Unica non nasce forse, lo dice Blasi in ogni modo, dall’aggressione feroce e senza deontologia dei media e da un grande giornalista e un grande giornale che si prestano allo slut-shaming di un ex marito molto famoso? La soubrette ha voluto aprire le porte del suo privato o è stata costretta a farlo, avendo i mezzi e le possibilità per rispondere e non subire e basta?
Le parole sono importanti, dice Michele Apicella, alias Nanni Moretti, in Palombella Rossa.
Le persone sono importanti, cazzo! dice Luciana Colacci, alias Paola Cortellesi, in Gli ultimi saranno ultimi.
Sono regole base, facili, eppure vogliamo ignorarle.
Perché questa è una società predatoria e violenta, che capitalizza il privato e cerca la prevaricazione senza se e senza ma.
Il patriarcato è solo uno dei suoi tanti vestiti. Uno dei meno eleganti e pacchiani.
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