La calda estate degli Arctic Monkeys, quando l’attesa (sotto al sole) diventa estasi

16 luglio. Quaranta gradi all'ombra. L'Ippodromo Capanelle sold out. Due super ospiti in apertura. E il tempo speso ad aspettare. Cosa ci resta di Alex Turner nella "città degli applausi", un crooner dall'anima (ancora) indie rock

Alex Turner è talmente bravo da risultare quasi fastidioso. Quasi. Non ha sbagliato una sola nota durante il concerto all’Ippodromo Capannelle di Roma, il 16 luglio, riuscendo a far dimenticare – nell’ora e un quarto di durata del suo spettacolo – le interminabili sei ore e mezza di attesa per vederlo esibirsi con la band di cui è il frontman dal 2002, i britannici Arctic Monkeys. Ma torniamo un attimo indietro.

Apertura dei cancelli ore 15.00. Tempo di arrivo dei primi appassionati: 10.00 (forse addirittura prima. Un minuto di silenzio per le povere anime che si sono sacrificate sotto al caldo fin dal mattino per vedere da vicino il gruppo). L’Ippodromo non è particolarmente generoso con i suoi ospiti. Anzi, si direbbe che cerca in tutti i modi di respingerli con bagni che ricordano i peggiori manicomi cinematografici e i “token” da cambiare in denaro per potersi accaparrare una banale bottiglietta d’acqua. Ma il pubblico resiste. Paziente.

La scaletta delle esibizioni è alquanto vaga. Due band si esibiscono prima del gruppo indie rock che oggi riesce ancora a detenere questo titolo pur avendo mutato più volte pelle – inclusa l’ultima variante funk del settimo album, The Car. Peccato che tra l’uno e gli altri passi più di un’ora di tempo, lasciando a boccheggiare gli spettatori che combattono con il fuoco degli imminenti quaranta gradi previsti a Roma.

Prima degli Arctic Monkeys

Nella città eterna  – o, come la chiama il frontman dei The Hives Howlin’ Pelle Almqvist, “la città degli eterni applausi” – ad aprire il concerto degli Arctic Monkeys sono appunto gli svedesi The Hives, che dall’11 agosto rilasceranno worldwide il sesto album The Death of Randy Fitzsimmons. A precederli è il cantautore Willie J. Healey, che col suo alternative indie immerge il pubblico in waves vellutate anni Settanta. Si sta come in mezzo ai titoli di testa di una pellicola di Paul Thomas Anderson: sentirsi in Vizio di forma o Licorice Pizza al tramonto di una Roma infernale, cosa potrebbe esserci di più vertiginosamente romantico?

Il sole cala. Healey incassa un “Sei bellissimo” dalla folla (“What is that?”, “Che cos’è?”, chiede, senza aspettare la risposta) e poi abbandona il palco, soddisfatto, lasciando gli spettatori un’altra ora (e più) in attesa.

È il momento dei The Hives. Completo intero, birra in mano, Howlin’ Pelle Almqvist va sbottonando la camicia di canzone in canzone, lanciandosi in un italiano sgrammaticato – con l’inglese non è che vada poi tanto meglio – per incitare il pubblico. Nel breve, ma febbricitante, tempo della loro esibizione rock, ci si dimentica che sono già passate quattro ore e mezza da quando è iniziata l’attesa sotto la cappa di sudore e calore.

Si salta e si balla, si canta e si urla il loro singolo del 2007: “Tik, Tik… BOOM!”. Che i The Hives siano meglio degli Arctic Monkeys? Il dubbio – fugace, solo un pensiero – si insinua. Dalla folla uno striscione lapidario viene inquadrato più volte dalle camere: “The Hives > Oasis”. Passa un’altra ora e quarantanove minuti. Arrivano.

L’Elvis Presley dell’indie rock

Una sfera stroboscopica si illumina in cielo. Sopra c’è scritto “Monkeys”. Solo “Monkeys”. Iniziano le prove luci. La scenografia, anni ’70, è minima. Al centro un cerchio di luce, dove verranno proiettate le immagini dei componenti del gruppo. Volti che rimbalzano sugli schermi laterali, gli unici grazie ai quali anche gli spettatori più lontani – quelli per cui Turner e compari sono solo puntini – potranno vedere il palco. Ottima la regia della serata.

Il pubblico degli Arctic Monkeys è variegato. C’è chi li segue da quasi vent’anni, quando i rocker erano solo quattro ragazzini di Sheffield, Alex Turner si vestiva con la polo e picchiare su chitarra e basso – con quell’attitudine indie che li caratterizzerà sempre – era tutto ciò che desideravano fare. Gente cresciuta ascoltando il punk/garage rock del primo album Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not o il secondo psichedelico Favourite Worst Nightmare.

Alex Turner, frontman degli Arctic Monkeys

Alex Turner, frontman degli Arctic Monkeys

C’è poi chi è arrivato con l’intera famiglia, con i panini nelle sacche frigo e mamme “rock” che accompagnano figli quindicenni che in quel gruppo riconoscono già pilastri della musica mondiale. Ingenui? Forse. Ma magari hanno ragione. Sono davvero i migliori.

Ci sono poi le persone che insieme agli Arctic Monkeys sono diventate adulte, che hanno superato i trent’anni – o ci stanno arrivando – e nella crescita di Alex Turner, classe ’86, rivedono l’evoluzione che loro stesse stanno attraversando. Un ragazzino che, se non avesse mai impugnato una chitarra, difficilmente sarebbe diventato qualcuno (il fascino, quello sì, lo avrebbe avuto lo stesso. E sul palco aiuta). E come se lo divora il palco, Alex Turner. Come lo padroneggia, da one man show accompagnato dalla sua ottima squadra. Abbandonato l’atteggiamento duro e puro degli inizi, ha un’eleganza e una morbidezza che richiama il sound retrò dell’ultimo album. Le sue mani fluttuano nell’aria, dirigendo umore, eccitazione e intonazione degli spettatori come fosse un direttore d’orchestra.

Alex Turner evoca Elvis Presley. Non lo dichiara mai esplicitamente, ma lo evoca. Lo aveva fatto con il look, con i capelli “leccati” e il ciuffetto come cresta. Sul palco lo richiama nella fluidità dei movimenti, negli arzigogolamenti della voce, nelle movenze. “Kung fu fighting on your roller skates” canta con Don’t Sit Down ‘Cause I’ve Moved Your Chair dall’album Suck It and See, imitando le mosse tipiche delle arti marziali (Elvis, sei tu?).

“Vecchie” canzoni, nuove orecchie

Tutto è perfetto. Impeccabile. Alex Turner non ne sbaglia una. È estasi allo stato puro. Per il pubblico è la medaglia d’oro dopo la prova di resistenza. È sentirsi pazzi ed esaltati con Fluorescent Adolescent, è piangere, come fa una ragazza nella folla, durante Cornerstone, è l’esplosione mainstream di una hit come Do I Wanna Know?. R U Mine?. Se lo chiede Alex Turner (“Sei mia?”), occhiali stile aviatore e stivale rockabilly, la risposta è: sì. È l’ultima canzone. Anche se la vera chiusura emotiva del concerto è arrivata poco prima con Body Paint, esempio massimo ed espressione dei vent’anni di carriera della band. Non si può dire di averla sentita davvero se non lo si è fatto dal vivo.

È quella canzone, ma è un’altra canzone. È Alex Turner ormai crooner, che conserva la “fame” di quando si è ragazzi. È la raffinatezza che si sporca, la classe che si scompone. È il brano che indica la svolta orchestrale, lounge music, con pizzichi jazz di The Car, che live cambia melodia a ogni verso, pur rimanendo la stessa.

È l’assolo finale di chitarra e basso tra Turner, Jamie Cook e Nick O’Malley, con la batteria di Matt Helders che tiene il passo, dà il tempo, galoppa sostenendo le follie contorte e bizantine di quella coda musicale. Sai che ci sarà un altro brano dopo, che gli artisti lasceranno il palco solo per farsi richiamare dal pubblico e salutare con gli ultimi pezzi. È un patto concordato.

Ma è quello il momento che tutti hanno aspettato. Sette ore e mezza dall’apertura dei cancelli, finalmente ci siamo. Ci siamo persi nell’estate calda, caldissima, degli Arctic Monkeys.