Oggi sembra un altro pianeta questo pezzo di Berlino. Vicino a Potsdamer Platz sembra essere atterrata un’astronave – è una specie di centro commerciale – che forse non sarebbe dispiaciuto a Ziggy Stardust. A due passi ci sono gli Hansa Studios, dove fu registrato Heroes. Allora c’erano Berlino Ovest e Berlino Est, ed erano due mondi, simili e diversissimi. Ora è uno dei cuori pulsanti della città, allora c’era il Muro, con le torrette di controllo con i Vopos armati di fucile.
Allora David Bowie girava in bicicletta per le strade di quello strano pezzo di mondo fuori dal mondo che era Berlino Ovest, felice che nessuno lo riconoscesse, o fingesse di non riconoscerlo. Due anni e mezzo – dal 1976 al 1978 – che per l’uomo chiamato “the thin white duke” (il sottile duca bianco) furono la salvezza. Era arrivato fisicamente e psichicamente devastato da un periodo furante passato a Los Angeles. Ed aveva pure, incredibile a dirsi, notevolissimi problemi economici.
Ebbene, oggi è un’ammonizione in pietra, una traccia frammentata di cemento armato che corre lungo tutta la città come una cicatrice, ma anche come i pezzi di un mosaico della storia. Ma allora il Muro era lì: dalle finestre degli Hansa Studios sembrava di poterlo toccare con mano, e quando si faceva musica – ossia sempre – la sentivano benissimo anche le guardie della Stasi che stavano con i fucili in mano sulle torrette di controllo.
Un rifugio, un santuario. Chiamato Berlino
E pure Bowie era lì. Forse non poteva essere altrove. Per la sua storia, per la storia della musica e del Novecento delle spie, delle guerra fredda, ma anche del punk che stava nascendo, dei suoni del presente che stavano mutando pelle ad una rapidità sconvolgente. “Per molti anni, Berlino fu per me una sorta di rifugio e di santuario. E’ stata una delle poche città in cui ho potuto muovermi in un virtuale anonimato. Stavo andando in rovina, Berlino costava poco. Per qualche motivo, ai berlinesi semplicemente non importava niente di nulla. Beh, certo non di un cantante rock inglese, perlomeno”: è quel che raccontò lui stesso, molti anni dopo.
David Bowie era venuto a Berlino – la città spaccata in due da un muro che aveva diviso in due anche il mondo – per rinascere, dopo essersi quasi fatto esplodere il cervello con la cocaina a Los Angeles.
Non a caso si era scelto un appartamento nella zona popolare di Schoeneberg: già allora era abitata da molti immigrati turchi, ed è forse lì che sono nate le influenze “orientali” di canzoni come The Secret Life of Arabia e come Neukoeln (che invece prende il nome dall’omonimo quartiere berlinese che ancora oggi è uno dei più multiculturali d’Europa).
Il bacio di due amanti
Il suo posto di lavoro era però agli Hansa Studios. Ebbene, un giorno d’estate nel 1977 Bowie si affacciò, come tante altre volte, al primo piano di quegli straordinari studi di registrazione al civico 38 di Koethener Strasse, uno strano edificio di prima della guerra che negli anni settanta stava ancora in mezzo al nulla, e aveva chiesto di essere lasciato solo.
Vide due amanti, non lontano dal Muro, abbracciarsi e baciarsi (racconta chi c’era che i due erano il produttore di Bowie, Tony Visconti e la corista Antonia Maass: loro hanno negato, per anni). Quel che scrisse rimarrà nella storia: “Stavamo vicino al Muro, e i fucili spararono sopra le nostre teste. E noi ci baciammo, come se niente potesse cadere, e la vergogna stava dall’altra parte. Oh, noi possiamo batterli, per sempre e sempre. For ever, and ever”. Sì, la canzone era Heroes.
Una di quelle canzoni che cambiano la storia della musica e che cambiano, al tempo stesso, la percezione che abbiamo di noi stessi.
Un altrove sonoro e visivo
Dunque: Heroes, registrata tra luglio e agosto del 1977, uscì come singolo nei negozi a fine settembre, seguita poco dopo dall’album omonimo. Ed è uno di quegli scorci di musica – quello della “Trilogia berlinese” di Bowie, composta oltreché da Heroes, anche dagli album Low e Lodger – che hanno il potere di mutare d’improvviso tutto il panorama musicale. Fondeva elettronica e rock, funk e persino, a tratti, suggestioni arabe, trasportando la scena e l’immaginario della “pop culture” forse per l’ultima volta in un altrove sonoro e visivo, in un luogo fino a quel momento inedito e mai sperimentato.
David Bowie aveva gettato alle spalle il cosiddetto “glam rock” e le paillettes di Ziggy Stardust, e di colpo, con la complicità di Brian Eno, di Iggy Pop, del produttore Tony Visconti e per pochi – ma cruciali – giorni anche del chitarrista Robert Fripp, aveva fatto esplodere gli anni ottanta e la new wave con tre anni d’anticipo. Ed erano proprio stati gli Hansa Studios ad aver attratto Bowie e Eno: quei pavimenti di legno, quell’eco – che diventerà uno dei marchi distintivi di Heroes – la sala controllo stranamente distante dalla sala di registrazione, l’atmosfera fuori dal tempo.
E, certo, l’ombra del Muro, a distanza di suono. L’alito della guerra fredda.
Un fiore per David
Oggi accanto al portone di Hauptstrasse 155 c’è un fiore che qualcuno ha lasciato per David. E c’è un targa: “Qui abitò dal 1976 al 1978 David Bowie. In questo periodo nacquero gli album Low, Heroes e Lodger, entrati nella storia come Trilogia berlinese”. David viveva qui, al primo piano, con la sua assistente (con la quale ogni tanto divise, così si dice, anche il letto), e per qualche mese anche con l’amico di sempre, Iggy Pop. Un “edificio ordinario di vecchia data, dipinto di un desolante colore grigiastro e di giallo”, come concedono finanche le guide turistiche berlinesi più affabili.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma