Gli occhi magici, spalancati e disarmanti. La testa rasata, da soldatessa in bilico tra il cielo e l’inferno. Quella voce capace di urlare e di calmare, saltare sull’anima, portarla sul burrone, a picco. E tenerla per la giacca, per non farla cadere giù. Non si è mai spostata da lì, Sinead O’ Connor.
Fino a oggi: 56 anni solamente. Aveva resistito con fatica sul cornicione di una vita sofferta, senza perdere il suo incanto. Aveva segnato il rock, con un tratto indie che ha mantenuto fino in fondo. Dieci album in studio. Il primo The Lion and The Cobra, nel 1987: un teaser degli anni Novanta, sonorità di luce e di metallo, qualcosa di mai sentito prima.
Tre anni dopo, quella canzone che ha preso in braccio il mondo, ci ha insegnato l’amore, un amore da gridare in faccia, senza vergognarsi. Quello che non conosce paragoni, celebra la scelta, la scandisce, la illumina, la sancisce. Nothing Compares 2 U. Sette milioni di copie in tutto il mondo. Un pezzo che Prince non aveva scritto per lei, ma che nessuno sa immaginare fuori dalla sua voce.
E poi un capolavoro ogni due anni. 1992: Am I Not Your Girl?. Quella copertina conturbante: l’abito nero, i tacchi, la testa rasata a testimoniare il nuovo femminile da lì a venire. Lo sguardo altrove, la sua sfida fiera eppure segreta. 1994: Universal Mother. Un album immenso, un viaggio, una rivoluzione. Ninne nanne sottovoce e canzoni d’impeto e di fuoco.
Cosa è stato per gli adolescenti del tempo, spingere play, alzare il volume e chiudere la porta della stanza. Possiamo stare ore a pensare alla Sinead della protesta, della mistica religiosa, del tormento. La sacerdotessa fanatica, la convertita all’Islam col cappuccio in testa Shuhada’ Davitt, la profetessa inquieta e pure inquietante, la creatura bianca e nera al contempo. Aneddoti, verità scomode, bugie insultanti.
Possiamo spaventarci a inseguire la cronaca, censire i matrimoni (tre), gli amori, gli errori. Possiamo impazzire a seguire i tornanti biografici impetuosi, nel dettaglio: strade di buio e di vento. Possiamo sostare con tenerezza sulla Sinead madre di quattro figli, tornare a quel tweet di alcuni mesi fa sul suicidio del figlio Shane diciassettenne e provare ancora il dolore empatico di quel momento.
Il bagliore candido di una donna distrutta, il coraggio di prendere comunque parola pubblica su quella botola tremenda con il vuoto sotto, la confidenza col dolore cattivo che travolge tutto, anche la vita stessa, quando la salute mentale ci lascia soli al buio, il tentativo di andare in clinica e chiedere aiuto. Quanta luce, però, è passata dalla sua inguaribile ferita per trent’anni in milioni di vite, di posti, di sogni. Quanta rabbia libera, quanta infuocata bellezza.
L’Irlanda incandescente amatissima, l’Europa diversa di cui era icona suprema e senza ortodossia. Magnetica, creatura lacerata, selvatico e imprendibile animale del bosco. Si era nascosta, lontana dai radar di questo tempo rumoroso e sporco. Eppure sembra incredibile, da oggi, dovremo fare senza.
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