Da adolescente Ernesto Assante aveva un fisico di magrezza stilizzata capace di far sembrare abbondante qualsiasi loden o giacca a vento: ricordo nitide come in un fumetto le vene sul braccio e le dita sulla chitarra mentre suonavamo insieme in un gruppo il cui nome, Metaphrase, avevamo trovato insieme aprendo a caso un vocabolario in una fredda e noiosa mattinata di sega a scuola.
Aveva una fortuna oltraggiosa con le donne (chi di noi che gli era amico non lo ha frequentato quotidianamente nella speranza che mollando una fidanzata si trovasse vicino per chiederle se aveva voglia di parlarne? Chiedo per un amico) ed una capacità di relazione sociale da publicist californiano: era impossibile andare ai concerti pop del Palasport all’Eur negli anni Settanta (ho visto con lui i Genesis, i Traffic, i Jethro Tull, i King Crimson: 2 volte) senza perderlo nella calca risucchiato dai milioni di persone che lo incrociavano e che chiedevano un po’ della sua contagiosa attenzione.
Ernesto Assante e una vagonata inesauribile di proposte
Ho fatto con lui milioni di cose, tra gli anni Settanta ed oggi, compreso un giro per le redazioni dei giornali, prima ancora di finire il liceo, per chiedere di collaborare per iniziare a praticare il mestiere del giornalismo: ci guardavano come qualcuno che citofoni oggi ad una casa di moda chiedendo di partecipare ad una sfilata. La casta era quasi impossibile da penetrare anche allora, benché i millennial si siano convinti oggi del contrario. Ci diedero retta, paradossalmente, solo dei giornali politici, tra questi il Quotidiano dei lavoratori. Ma Ernesto Assante chiamava ancora oggi, per una vagonata inesauribile di proposte.
Poteva chiamarti per proporti di scrivere insieme a lui un libro, un programma radiofonico, una enciclopedia (l’ultima cosa che ho fatto per lui: delle voci di cinema per l’Enciclopedia Treccani della Musica; l’ultima cosa che gli ho chiesto io: una testimonianza in un mio film doc andato in onda su Rai Due, Posti in piedi). Ma poteva anche chiamarti per fondare una nuova religione, fare un podcast su Demetrio Stratos e Gian Maria Volontè, rifare Woodstock a Villa Ada.
Tutti noi che lo abbiamo conosciuto con i calzoni corti – Ernesto viveva in una grande casa vicino a Piazza Istria e la libera vita della madre, risposatasi dopo la morte del padre ci ha permesso di combinare di tutto in quella casa, dai poker fino all’alba alle prove del nostro gruppo jazz rock indeciso tra Crosby e il Perigeo – tutti noi abbiamo potuto contare fino a pochi giorni fa su questo privilegio: finché Ernesto era in vita, lo era anche la nostra gioventù. Per questo, la sua scomparsa, non solo ci ha ricordato con quale sbrigativa ferocia la vita può riprendersi i suoi tirannici diritti su un corpo, ma che non era più possibile contare su quella deroga simbolica.
Un pomeriggio a suonare a casa di Ettore Scola
Non c’è davvero bisogno di ricordare che Ernesto non è stato solo un ottimo critico giornalista ma ha anche innovato il linguaggio trovando l’anello mancante tra cronaca e competenza, passione e comunicazione, godimento e informazione, che aveva un diapason misterioso per praticare con ironia, diletto e profitto persino la vanvera televisiva, che i suoi libri ne fanno probabilmente il più erudito critico musicale pop dal secondo dopoguerra ad oggi. Però, per capire l’uomo, e l’epoca che ho avuto la fortuna sfacciata di vivere spesso accanto a lui, vorrei ricordare qualcosa che ho rievocato alla morte di un grande regista.
Per l’irresponsabile fantasia della storia, con i Metaphrase, visto che ci avevano cacciato dal garage dove provavamo, finirono per ritrovarsi a provare a casa di Ettore Scola. La figlia, Paola, che frequentava lo stesso liceo di Ernesto, ci invitò tutti a casa sua: sembra incredibile, ma occupammo con chitarre, batterie e piano elettrico il salotto del regista di Una giornata particolare. Rimanemmo solo pochi mesi in quella casa ma una volta, in assenza di Ettore, curiosammo nel suo studio: in una macchina da scrivere che sembrava già vintage nei Settanta, leggemmo ad alta voce dei passaggi da una pagina della sceneggiatura di Brutti, sporchi e cattivi.
Quegli adolescenti che sbirciano dentro una casa di Roma di un quartiere borghese, nella penombra di un pomeriggio di primavera, mi sembra somiglino all’inquadratura di un suo film: carrello all’indietro, fino alla intelaiatura della porta che incornicia le schiene dei ragazzi chini sulla macchina da scrivere. C’erano, tra gli atri, Ernesto, Massimo Sebastiani, oggi caporedattore all’Ansa, e Mario Palma, che ha prodotto dei documentari con me.
Per molti, quasi tutti, Ernesto era un giornalista ed un intellettuale che era l’equivalente di un maestro Jedi della musica, per altri, i più fortunati che hanno passato gran tempo con lui, quelli che sono rimasti storditi prima che ancora addolorati dalla sua morte senza preavviso, era quella maglietta con il volto di Che Guevara che compare in tutte le nostre foto da teenager. Né gli uni né gli altri potranno fare alcunchè per scordarlo. Né, credo resisterò alla tentazione di montare insieme, con lo stesso groppo in gola che ho adesso, tutto il materiale di Ernesto che ho inedito nel computer dall’ultimo film, per rivederlo con tutti coloro che lo hanno conosciuto o anche solo visto o letto o hanno avuto da lui una pacca sulle spalle.
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