Classe 2000, un’attitudine urban dalle sfumature blues e tante storie da raccontare. Marianna Mammone, in arte BigMama, canta e si esibisce da quando ne ha memoria, e la musica è per lei capacità di sovvertire e armarsi contro qualunque ostilità. D’altronde fa rap, genere per eccellenza della rivalsa sociale, e questa necessità sovversiva l’ha presa alla lettera sin da subito. Mette la sua vita in musica, traspone in barre le prese di coscienza e le consapevolezze di un animo tanto giovane quanto intenso.
Bullismo, vuoti lancinanti e tentativi di auto accettazione, soggetti universali che BigMama canta ora anche su uno dei palcoscenici più imponenti d’Italia, a Sanremo, con la sua La rabbia non ti basta, una sorta di Dedicato di Loredana Bertè riadattata e resa contemporanea, una liberazione sotto forma di pagina di diario. Ospite nell’edizione 2023, nella serata dei duetti aveva interpretato American Woman dei Guess Who insieme ad Elodie, mostrando alla tv generalista un femminile multiforme e reale. Quello stesso femminile che, in un mondo tendenzialmente androcentrico come quello dell’hip hop, è stato spesso un deterrente per lei, un ostacolo verso una rappresentazione scevra da discriminazioni di sesso.
Quest’anno, matura e consapevole, calca il palco dell’Ariston da solista. Spiazza il pubblico sanremese spogliandosi del mantello che la veste nella seconda serata della kermesse, e dedicando la sua esibizione (e le sue calze) alla comunità queer. Le critiche permangono e continuano a ferire, aumentano proporzionalmente all’ampiezza del pubblico a cui si rivolge. Ma si accompagnano finalmente alla rappresentazione di una realtà iconografica oggettiva che per alcuni fa ancora paura. E soprattutto ad un nuovo, essenziale assioma: la rabbia non basta.
L’hip hop nasce come genere di riscatto sociale. E la sua La rabbia non ti basta, in questo senso, ne è esempio. Che cos’è per lei il rap?
La musica è stata il mio scudo per tanti anni: l’ho utilizzata per sentirmi meglio all’interno della società. Ad un certo punto, invece, è diventata la mia arma: quando ho capito che quelle parole potevo utilizzarle per dare fastidio, per dire qualcosa di concreto che spostasse le coscienze, ho iniziato a farlo. Il rap mi è servito e continua a servirmi tanto, perché è il genere più diretto che esista. Posso dire ciò che voglio senza avere bisogno di dover per forza creare una musicalità. Se c’è qualcosa che devo dire, lo dico e basta.
La musica è sempre stata una costante per lei?
Ho iniziato con la musica da piccolissima, non ho mai suonato niente purtroppo, perché non mi hanno mai spronata a farlo. Però ogni volta che c’era l’occasione di cantare, l’ho sempre fatto: gare canore, coretti e quant’altro. È qualcosa che mi accompagna da sempre.
Nei suoi testi parla apertamente di bullismo. Le viene naturale o è una scelta figlia di un periodo di autoanalisi?
Ho provato a farla diventare facile sin da subito. Il mio primissimo pezzo parla di bullismo e di autolesionismo: ho tentato da subito di portare in musica una denuncia sociale forte. Poi però ho avuto un periodo in cui avevo timore di parlare di alcune cose, non mi sentivo libera al 100%. La musica l’ho sempre usata al posto della voce, quindi nei miei primi pezzi c’era un po’ di vergogna, ma adesso non c’è più. Ora uso la musica come arma.
Le musiciste e performer sono continuamente oggettificate: sessualizzate se si mostrano troppo, bruscamente criticate se non sono conformi a certe norme. È più difficile farsi strada nel mondo artistico da donne?
Assolutamente sì. Mi dispiace parlare ancora di certe tematiche, perché in cuor mio spero che arrivi un giorno in cui non ce ne sarà più bisogno. Però lo sappiamo benissimo, le donne sono da sempre più criticate rispetto agli uomini. Le persone si sentono in dovere di commentare la loro fisicità, le loro esibizioni, il loro stile, le loro scelte. È qualcosa di intrinseco alla società in cui viviamo, che rende più difficile per noi farci spazio. Le persone sentono il bisogno di dire la propria parola sulle donne, ma una rappresentazione finalmente adeguata e multiforme, in questo senso, sta facendo il proprio lavoro.
Anche in questo festival?
Quello di quest’anno è un festival molto femminile. Ovviamente i numeri e le percentuali non sono ancora giustissimi né confortanti, però sono certa che questa sfilza di donne che spaccano aiuterà il pensiero collettivo.
Quello dell’hip hop è ancora un ambito a prevalenza maschile?
È un mondo maschile, non ci possiamo prendere in giro. Se la pagina di una testata generica posta una mia foto, tendenzialmente il 10% di chi commenta lo fa per prendermi per il culo. Il resto, però sono commenti relativi a ciò che ho detto, fatto o cantato. Scaturiscono riflessioni magari, iniziano dei dibattiti.
Se questa foto invece la posta una pagina di rap, non c’è una sola persona che si complimenti, che mi dica che valgo qualcosa. Hanno costantemente bisogno di buttare merda sugli altri, soprattutto se si parla di donne. Quello del rap è un mondo che deve ancora imparare tanto. A livello mondiale esistono tantissime rapper che hanno il mondo in mano, in Italia dobbiamo ancora fare qualche passo in avanti.
Però pensiamo a lei, Madame o Anna. Forse come diceva prima una rappresentazione più completa della realtà sta pian piano facendo il suo corso?
Sì, sicuramente. Però c’è davvero tanto da lavorare in tutti i generi. Prenda come esempio il pop italiano: ci sono tantissime donne che spaccano, e comunque si cerca ogni giorno di metterle in gara tra loro. La regina del pop è lei, anzi no, è lei. È come se ci fosse solo uno spazio piccolissimo, come se solo una potesse tenere lo scettro in mano e le altre dovessero stare a guardare.
E questa rivalità non c’è se si parla di uomini?
C’è di meno e si sente di meno. In Italia una sola donna può fare rap, quando invece, ovviamente, i re del genere sono infiniti. Anche loro sono in gara per chi è più forte, per chi è più figo, però la loro musica è sempre considerata come soggettiva. Per gli uomini questo viene ricordato, per le donne no.
La sua esperienza a Sanremo l’anno scorso con Elodie è stata un altro esempio di femminile che buca gli schermi. Ma probabilmente lo sarà anche quest’anno, quando nella serata delle cover del venerdì sera porterà Lady Marmalade, un brano scritto, prodotto e interpretato da donne.
In realtà, ho sempre ascoltato musica di uomini. Vengo da una famiglia piena di uomini, abbiamo sempre avuto degli standard di idoli perlopiù maschili. Il fatto che io non mi ispiri a qualche donna in particolare rende la mia propaganda molto reale, molto diretta. È solo frutto di ciò che ho vissuto, che mi ha portata a cercare un riscatto in tutti i modi possibili.
Come nasce La rabbia non ti basta, il brano portato in gara a Sanremo?
È una canzone che sento tantissimo. Le prime volte che l’ho riascoltata dopo averla registrata, ho pianto. Continuo a piangere spesso quando l’ascolto, perché è estremamente reale. Dice delle cose vere, parla di me, c’è un legame molto profondo che mi lega a questo pezzo. Dei brani proposti era sicuramente il mio preferito, quindi ne sono felicissima.
È una sorta di lettera alla Lei piccola: da cosa la metterebbe in guardia col senno di poi?
La vorrei proteggere. È una cosa che mi viene spontanea, ed è effettivamente ciò che faccio nel pezzo. “Se potessi andare indietro ti darei una casa vera in cui dormire, ti coprirei per strada e mi farei colpire”, canto. La proteggerei, perché è qualcosa che quando ero piccola non ha mai fatto nessuno, e mi è mancato davvero tanto.
Nel brano canta “Animo buono ma riempito d’odio per far testa a quello degli altri”. L’odio ricevuto l’ha mai incattivita?
Certo. Da qui nasce La rabbia non ti basta. Io ero molto cattiva con il mondo: odiavo tutto e tutti, odiavo me stessa soprattutto, e qualsiasi cosa fosse attorno a me. Per questo La rabbia non mi basta, perché volevo si percepisse questo mio cambiamento.
Sono cresciuta così tanto da riuscire a trasformare quelle energie negative in qualcosa di positivo, ed è così che voglio fare nella vita. Essere arrabbiata con il mondo, incattivirsi, essere cattivi, in generale, non ha senso. Anzi, è controproducente per se stessi. E in questo pezzo provo a ricordarmelo.
Il giudizio degli altri la spaventa ancora?
Tanto. Continua a rimanere una delle mie problematiche più grandi: quando sei traumatizzata da qualcosa è molto difficile uscirne. E io non penso di esserne ancora uscita più di tanto. Dipendo ancora molto da quello che dicono le persone di me e mi faccio abbattere casualmente.
Si sente in qualche modo espressione di una comunità?
Mi sento la rappresentazione di tante persone. Voglio che la mia voce diventi un po’ una sorta di messaggio per migliorare e migliorarsi. Per credere sempre di più in se stessi e soprattutto per mandare avanti messaggi forti.
Lei nella crescita ha mai sentito la mancanza di una rappresentazione così concreta?
Sì, l’ho sentita, ed è proprio quel tappo che voglio mettere, quel buco che voglio andare a coprire. Per tutti coloro che si sentono privi di punti di riferimento, incompresi. Sto notando con grande piacere che in questi giorni le persone hanno iniziato a parlare, hanno iniziato a ribellarsi.
Forse la polimorfia della rappresentazione è anche una possibilità di farsi forza e reagire ai commenti infelici di una parte di società ancora retrograda e bigotta.
Esatto. Basta vedere gli ultimi post fatti, i commenti che mi sono arrivati, le frecciatine che mi hanno mandato. Eppure so che ci sono tante persone a difendermi, perché probabilmente è proprio la rappresentazione che crea coraggio. Quando si è da soli è difficile parlare, quando si è in gruppo tutti hanno un po’ di forza in più.
E questo concetto di gruppo è stato alla base della sua seconda esibizione al festival, in cui ha dedicato l’esibizione alla comunità queer. Su Instagram ha scritto “Sono voce di chi non ce l’ha”.
Ed è la cosa più importante. Cercherò di essere la prima di tante persone che insieme a me decidono di compiere un passo in più verso il cambiamento.
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