Ali spezzate, nebbia, tempeste e temporali, streghe al rogo, specchi presi a pugni, semafori rotti, sparatorie di quartiere, zombie: siete degli illusi se credete che siano ancora l’amore e le rime baciate a fare la voce grossa sul palco dell’Ariston. Quest’anno Sanremo è un’antologia di mezzi disastri, cupezze, visioni mortifere, altro che festa della (fu) canzone italiana: navigando liberi (ma privi di musica) in mezzo alle immortali liriche che decine e decine di autori hanno consegnato al direttore supremo Amadeus, il quadro che ne esce è terrorizzante. “Finiscimi” implora il ventunenne Giovanni Pietro Damian che voi (forse) conoscete come Sangiovanni (“E io ancora che ti chiamo, per dire: finiscimi!”), “affogo in una lacrima perché il mio destino è autodistruttivo”, giurano i La Sad (quelli con i capelli a spina rosa o verdi), gli stessi che prendono “a pugni lo specchio” e che alla (o al) partner rimproverano di avere “un cuore di plastica”, mentre “l’amore che spacca il cuore a metà ti lascia in coma, dentro il solito bar”. Incalza rapper conosciuto come Il Tre: “le tue pupille sembrano pallottole, se mi guardi mi ferisci”.
Sì, l’allegria è (ben)servita al quinto festival firmato Amadeus. A proposito di specchi, se questo è quello del paese, auguri al paese: uno specchio in mille pezzi, preso a pugni, una specie di prisma impazzito, e non basteranno tutti i fiori di Sanremo a placare le ansie collettive. Prendete Ghali, che ha pensato bene di illustrare ad un extraterrestre come vanno le cose dalle nostre parti: la canzone è Casa mia, un posto dove “siamo tutti zombie col telefono in mano”, e anche se “il cielo è blu, blu, blu, molto più blu (ancora più blu)”, a lui gli manca il suo quartiere, dove “adesso c’è una sparatoria”.
Insomma, pare proprio che non sia l’ottimismo a presidiare sulle canzoni dei trenta cantanti in gara, assemblati dal sommo direttore artistico secondo criteri imperscrutabili e misteriosi, come si addice ai potenti veri (un giorno sarà opportuno immaginare che festival sarebbe stato quello composto dall’eserciti di esclusi di Sanremo 2024, ma questa è un’altra storia). Pure l’ex vincitore Diodato, considerato un vero autore, è avvolto da pensieri di straordinaria cupezza: “Un altro gioco di parole, un’altra dose di dolore: ma ormai sei già nella tempesta, non puoi pensare a ciò che resta. E vuoi toccare il fondo, fino in fondo”. Che dire? Evviva.
Da parte sua Dargen D’Amico, insieme ad altri quattro autori, intende portare nelle case degli italiani la realtà dei migranti: “C’è chi mi chiama figlio di puttana, che male c’è”, esordisce il rapper in Onda alta, dove vuole mostrarci cosa vuol dire attraversare il Mediterraneo in un barcone: “Siamo più dei salvagenti in barca, sta arrivando arrivando l’onda alta, non ci resta che pregare finché passa”, scandisce il signor D’Amico, che conclude “navigando verso Malta, senza aver mai nuotato nell’acqua alta”. Non dissimile il richiamo di Mahmood, pure lui ex trionfatore e dal dna orgogliosamente meticcio: “Dicevi ritornatene al tuo paese”, così gli dicevano gli italiani brava gente.
Non sappiamo se autolesionista o più sadomaso è invece Carla, transfuga di Mare Fuori, che in Diamanti grezzi immagina di “ferirsi lasciandosi le ali spezzate: dimmelo se ti piace”. Immagina anche di “correre a fari spenti” e assicura che l’amore “è una sala slot, mi gioco tutto”, ma è chiaro “cosa siamo noi: solo diamanti grezzi, cadono in mille pezzi”. Così mentre salutiamo una rara apparizione della rima baciata, salutiamo con entusiasmo l’arrivo dalla provincia toscana dei Bnkr44 – il vivido gruppo di giovanissimi che orgogliosamente rivendica il fatto di venire da Villanova, frazione di Empoli – che invocano un “governo punk”, giurandoci, chissà perché, che “parliamo da soli in una notte di prigione, con gli occhi spalancati e le labbra di silicone”, mentre ad un ipotetico interlocutore, forse una ragazza, ricordano che “ti pettini con una calibro 9”.
Ecco, sono un bel catalogo di metafore impazzite, i giochi di parole surreali, le liriche di Sanremolo. “E’ il buio che ti mangia e non ti fa dormire, non ti fa dormire”, ripete piena di rabbia (lo dice lei, “ma non basta”), la mitica BigMama, una delle voci più attese del festival di Kim-Jung-Ama. Lei giustamente pretende i suoi spazi, così come Annalisa, la regina del tormentone pop: con l’apporto inestimabile di ben sei autori, in Sinceramente la rossa venuta dall’officina di Amici ci informa che “mi sento scossa ah, ma quanto male fa” (notevole quell'”ah” piazzato lì per far rima con “fa”). E ancora: “Sto tremando, sto tremando, sto lasciando dei chiari di luna indietro” in un crescendo di immagini poetiche: “Tu spegni sigarette sul velluto blu”, sibila lei (noi non l’abbiamo capito, ma sicuramente il messaggio si cela nel sostrato più profondo dell’inconscio collettivo).
“La noia, la noia, la noia, la noia” promette da par sua Angelina Mango (chissà che il direttore artistico non faccia gli scongiuri), da lei solo un minuscolo varco alla speranza: “Non ci resta che ridere in queste notti bruciate”.
Sì, è tutto uno scappare (“da Roma nord” nel caso di Gazzelle), uno “stare bene anche all’inferno”: qui è Fred De Palma, uno che sta a metà strada tra la trap e il reggaeton, a parlare, rattristandoci, del cielo che “non ci vuole” e che siamo “pieni di rimpianto fino all’overdose”. Irrompe invece sulla scena con grande forza l’indomita Loredana Bertè con Pazza: occhio che “Sono sempre una ragazza che per poco già s’incazza”, avverte gli ascoltatori, e per eliminare ogni dubbio relativamente al suo approccio alle relazioni amorose fa sapere che “col cuore ti ho spremuto come un dentifricio”. Non crediate che ci sia spazio per un accomodamento: “Non ho bisogno di chi mi perdona, io faccio da sola”.
Nel segmento dell’orgoglio femminile fa bella figura di sé anche Fiorella Mannoia: “Sono la strega in cima al rogo, una farfalla che imbraccia il fucile”, ma non solo, Fiorella ci riferisce che “ho amato in un bordello e mentito non sai quanto” e soprattutto che “sono una madonna e il pianto, sono stupore e meraviglia, sono negazione e orgasmo” (accettiamo scommesse: s’alzerà potente l’onda delle polemiche per aver accostato ad una sola riga dall’altra la madonna e l’orgasmo). Più modestamente, Emma si accontenta: “Tagliami il cuore se vuoi con un paio di forbici”.
In tanto splatter metaforico e non (che ne diranno i comitati di censura?), tocca arrivare all’usato sicuro di Renga e Nek (Pazzo di te) e al rassicurante vintage dei Ricchi e Poveri per ritrovare l’amore sanremese come dio comanda: “No, no, no, no, non senti un brivido, non pensarci, no solo vivilo, fino a che si può, fino all’ultimo. Tanto lo sai che ti aspetto, ma non tutta la vita: anche la più bella rosa diventa appassita”. Oppure ai Santi Francesi, che si cimentano in un simpatico calembour che s’imprimerà in eterno nella memoria degli spettatori: “Mi hai lasciato con l’amore in bocca, senza farlo apposta: sono le ultime gocce di pioggia”.
Sanremo, Sanremo, Sanremo… Per fortuna ci sono le ugole potenti de Il Volo a riportarci nei paesaggi ameni, in quei luoghi dell’anima in cui “questo amore infinito che infinito non è” e “tu sei l’unica luce a dare un senso”. E se il senso lo stesso non lo trovate, qualche squarcio di speranza ve la dà una donna molto cosmopolita come Rose Villain: “Senti, il mio cuore fa così: boom boom boom / Corro da te sopra la mia vroom vroom vrooom”. Il menù è completo, l’Ariston è servito. Ma non dimenticate l’Alka-Seltzer.
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