Compositrice e producer di musica elettronica, cantautrice e autrice di musica per il cinema, la genovese Ginevra Nervi, 29 anni, è una delle artiste più eclettiche, potenti, innovative del panorama musicale e delle colonne sonore, capace di trattare l’armonia più delicata, il mondo dell’elettronica o un film che cerca di raggiungere il grado zero della musicalità con la stessa grazia decisa, la stessa capacità di andare oltre e altrove, per curiosità e talento. A giugno 2022, per Tempesta, è uscito il suo album The Disorder of Appearances che rende l’idea della sua arte e della sua concezione della sperimentazione musicale sin dal titolo.
Protagonista del concerto dell’ACMF (Associazione Compositori Musica per Film) nel 2022, ha lasciato ad altri giovani colleghi quest’anno (si è tenuto la sera del 3 ottobre del 2023) il compito di raccontare con parole e fatti il loro lavoro. Il 5 ottobre 2023 passerà al festival internazionale di cinema di Rio de Janeiro con Until The Music is Over (Até qui a música pare), in concorso. Un’opera di Cristiane Oliveira, al suo quarto film da regista, che l’ha messa a dura prova. Un nuovo salto di qualità dopo la candidatura al David di Donatello per il pezzo Miles Away in feat. con Pivio Pischiutta e Aldo De Scalzi per Non odiare di Mauro Mancini.
Until the music is over è un lavoro complesso in cui la sua musica si impasta con una lingua quasi dimenticata e rumori ambientali. Com’è stato lavorare a un film che sin dal titolo è una sfida per un compositore?
Abbiamo iniziato a lavorare con grande anticipo rispetto alle riprese, la regista mi ha subito chiesto di fare una ricerca approfondita sugli ambienti dove avrebbe girato: fiumi, corsi d’acqua, montagne, foresta pluviale. Mi sono dovuta adattare e accordare a suoni estremamente naturali, molto legati a una realtà rurale, perché questa comunità talian (500.000 persone che parlano un dialetto della lingua veneta e che vivono negli Stati brasiliani di Rio Grande do Sul e Santa Catarina, oltre che nei comuni di Santa Teresa e Venda Nova do Imigrante nell’Espírito Santo) vive in centri abitati ancora molto rurali, comunità piccole dell’entroterra. Ho dovuto usare un metodo di lavoro molto intuitivo. E frammentato, utilizzando delle linee melodiche minimali e minimaliste, un mix tra sound design e presa diretta: mi ha aiutato molto vedere i suoi lavori precedenti, tutti in questa direzione.
Ed è stato molto divertente lo scambio durate le riprese, lei registrava suoni sullo smartphone e me li inviava oppure mi mandava pezzi di riprese, della loro presa diretta, e mi ritrovavo rumori stranissimi che avrei dovuto usare in colonna sonora. O meglio, non li ho messi ma hanno contribuito a costruire le mie composizioni, mi hanno fatto capire dove usare l’ambiente, dove replicare alcuni di questi suoni con le percussioni o le corde pizzicate, l’obiettivo finale è portare lo spettatore a proiettarsi in un’altra dimensione, anche perché qui la musica vera e propria arriva quando passi al piano narrativo onirico, in quattro o cinque appuntamenti all’interno del film molto precisi. Delle bolle visive e narrative, un flashback, un sogno, un ricordo. Serviva creare un isolamento anche acustico per l’introspezione del personaggio principale ma pure del pubblico.
Come vi siete scelte con Oliveira? Come nasce la vostra collaborazione?
Sono stata selezionata dal coproduttore italiano Emanuele Nespeca, di Solaria Film, stavano cercando un compositore in Italia anche per trovare questa connessione tra il Brasile e il nostro paese, così presente nel film, che è incentrato su questa comunità veneta migrata in Brasile. E io ero su un suo altro progetto ma sono rimasta subito molto affascinata da questo percorso creativo, perché in un modo molto particolare questo studio sui suoni si avvicina al mio repertorio e in un altro invece sembra ad esso opposto. Abbiamo fatto un incontro e poi ci siamo ritrovate in Italia dove Cristiane ha fatto il mix. È stato bello conoscersi, è sempre strano farlo dopo aver lavorato a lungo a distanza. Sono così felice di ritrovare questo film ora, così vicino a me, a quello che faccio, e contemporaneamente così diverso da tutto quello che ho composto finora.
Nel suo lavoro unisce una cifra stilistica elettronica a un eclettismo non comune.
Dipende dal fatto, credo, che non mi chiudo a progetti complessi e rischiosi. È stimolante per il mio background elettronico, per quella che è la mia ricerca maniacale dei timbri, dei suoni in tutto ciò che è strumentato, distorto, differente non chiudermi in una comfort zone. Detto questo tutti i miei progetti hanno sempre avuto una matrice musicale, melodica, armonica presente e ben definita, mai mi era capitato qualcosa che andasse in una direzione tanto estrema, se non forse uno dei miei primissimi lavori al cinema, il documentario Fuoco Sacro di Antonio Castaldo, un lavoro sui vigili del fuoco (lo è anche il cineasta) che era stato a Venezia nel 2020. In quel lavoro abbiamo giocato tanto sulla matrice ambientale dei suoni, più rumoristica, così come in Until The Music Is Over, un lavoro in costante sottrazione, quasi totale, finendo per agire su vere e proprie suggestioni sonore che prendano e portino chi guarda da un’altra parte, oltre lo schermo. Ripensandoci, mi sembra di essere tornata ai miei studi di elettronica in conservatorio.
Lei è una classe 1994, è donna. Quanto è difficile per una giovane affermarsi in un ambiente così maschile?
Non è un mistero che il mondo sia ancora squilibrato, ma sono la persona più sbagliata a cui chiederlo, perché per fortuna ho sempre avuto molte possibilità dall’industria cinematografica italiana. Rimane il fatto che il tema del ricambio generazionale è persino più ostico di quello di genere, che ha fatto qualche passo in più. In Europa, non solo in Italia, siamo più lenti a dare spazio ai giovani, ma al di là del mio feedback personale positivo, ho anche l’impressione che qualcosa stia cambiando. I produttori devono trovare il coraggio di consegnare a giovani progetti complessi. C’è ancora una resistenza a fidarsi, ma la verità è che la musica è innovazione, visione, quindi l’arrivo di nuove teste, sensibilità sul mercato è importante. Un team di lavoro eterogeneo per età, esperienze, tipi di creatività, che mescoli diverse generazioni dà più possibilità a chi lavora e all’opera stessa.
Lavorare con un coetaneo è stimolante, ma lo è anche farlo con chi ha una grande differenza d’età. Però questo coraggio dobbiamo averlo anche noi compositori: con i piedi piantati a terra devi avere le idee ben chiare e nessun timore reverenziale nel proporre il tuo talento, non è un mondo in cui è un valore muoversi in punta di piedi. La nostra generazione non ha alternative: o rompi la barriera o rimani in disparte. Entrare dalla porta di servizio, aspettare, non è un tema.
La musica per il cinema sembra restia alla sperimentazione: si pensi alle resistenze al Morricone più sperimentale degli inizi, ma anche alla venerazione per gli Zimmer, i Williams e più recentemente Trent Reznor. Sembra un mondo alla costante ricerca di certezze.
Sono d’accordo, ancora prima di parlare di maschilismo e ricambio generazionale c’è bisogno di far notare un problema di troppo conservatorismo. E poco conservatorio, volendo fare una battuta. Scherzi a parte abbiamo questa tendenza a creare delle etichette grosse come delle case, degli standard: se faccio il noir, il crime thriller voglio Trent Reznor; se faccio la cosa in costume o ambientata in un determinato periodo storico voglio fare una roba più alla Zimmer.
Il punto è che anche se non sono loro a lavorarci, finisci per avere piste musicali troppo definite, tutte uguali, creando dei preconcetti che in quanto tali portano a una chiusura, a una limitazione delle possibilità di un compositore. È anche un problema di informazione, ci sono tanti progressi e innovazioni musicali facilmente reperibili a cui però pochi accedono, per pigrizia e per ignoranza. Ci sono tanti compositori capaci, direi nativi nel lavorare sulle immagini, che rimangono ai margini perché i “soliti”, temi o artisti, danno più sicurezze.
Credo che questo dipenda molto anche dal fatto che si parli in maniera poco approfondita di quello che è il lavoro del compositore.
Cosa si può fare in merito?
Da questo punto di vista io e altri miei colleghi abbiamo fatto nascere l’ACMF (Associazione Compositori Musica per Film), che tra le sue ragion d’essere ha proprio il mostrare, nei suoi talenti e nel suo lavoro, una categoria molto sottorappresentata. Ci sono alcune cose davvero incomprensibili: spesso le case di produzione non hanno interesse a mettere in luce chi ha scritto la musica per un determinato progetto.
Il punto, probabilmente, è più filosofico e antropologico: è un periodo storico in cui siamo totalmente passivi alla musica e così il compositore è diventato, nell’immaginario collettivo ma pure di alcuni addetti ai lavori, un jukebox. L’industria è cambiata, è troppo veloce, sarò pure troppo giovane per essere nostalgica, ma è vero che in questo presente il nostro lavoro è molto mercificato, ci sono poche occasioni per sperimentare e tempistiche che strozzano il talento in favore di un conformismo eccessivo.
La richiesta di prodotti nuovi sul mercato è talmente tanto alta che il compositore finisce per dover scrivere troppa musica in tempi eccessivamente rapidi, gareggiando con le library e la musica che può essere creata dall’intelligenza artificiale. Così un concerto come quello dello scorso 3 ottobre 2023 – io ho partecipato l’anno scorso – è un modo per mostrarci, raccontarci, uscire fuori dal cono d’ombra.
Il pubblico ha un disperato bisogno di vedere anche chi c’è dietro alla realizzazione di un’opera cinematografica o seriale anche dal punto di vista musicale, non ama essere passivo e se gli dai un’opportunità esce fuori da quella condizione e cerca, non subisce. Si rende conto della differenza tra una colonna sonora ad hoc e un puzzle di pezzi di repertorio preso da library generiche, guarda cosa succede quando dai l’opportunità alle persone, per esempio, di vedere una colonna sonora eseguita dal vivo, osserva il loro stupore, la meraviglia, il palco rimane il posto migliore in cui raccontare il nostro lavoro. Anche solo eseguendolo.
Qual è il suo collega preferito?
Come si fa a rispondere a una domanda del genere? Ce ne sono tanti che stimo. Posso dire il prossimo che andrò a vedere: al RomaEuropa Festival, all’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, l’8 ottobre vedrò il concerto di Ben Frost, il geniale autore della colonna sonora di Dark, e so già che mi farà saltare sulla sedia.
Peraltro il lavoro che fa ACMF è vicino a ciò che chiede il pubblico. Se si pensa agli incassi del film Ennio, si capisce che l’esecuzione delle colonne sonore, così come il parlarne, entra prepotentemente negli interessi del pubblico.
E a noi aiuta a fare ancora meglio, perché l’interazione tra noi artisti e quella con il pubblico è profondamente fertile, vedere come (ri)suona il tuo lavoro fuori da te e dal contesto per cui lo hai composto ti porta altrove, ti aiuta ad avere nuove idee.
Ha già pronto il nuovo album?
Ci sto lavorando, nel 2021 è uscito un primo EP e poi a giugno del 2022 è uscito The Disorder of Appearances per Tempesta Dischi, l’ho portato in tour lo scorso anno e anche in questi mesi. E anche lì mi sono resa conto di quanto io abbia bisogno delle immagini, mio fratello ha creato un lungo montaggio filmico tratto dall’archivio Bellinger, della stessa durata del mio disco, un film con cui dialogo durante i live, perché le due facce del mio lavoro, fotogrammi e sequenze e note e musica in me non si scindono, non considero gli album e il cinema due mondi a parte, ma la conseguenza gli uni dell’altro, due vasi comunicanti. Ora avrò altre date, al festival Time Zones a Bari, a Tallinn a novembre, a Genova. Poi appunto mi concentrerò sul prossimo lavoro, che andrà in direzione completamente diversa.
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