Entrano ad uno ad uno, con incedere spettrale, prima i due flauti traversi poi tutta la Baltic Sea Philarmonic diretta da Kristjan Järvi. Una quarantina tra ottoni, archi, percussioni, per lo più giovanissimi, a riempire ogni metro cubo de La Fenice di Venezia come un densissimo liquido amniotico. Il palco della grandiosa produzione di Biennale Musica – Ships di Brian Eno – è immerso in una penombra screziata di blu, come blu profondo sono i suoni che paiono emergere da chissà quali abissi. In queste profondità i violini sono piccole onde, e si odono echi di sirene giungere da lontano. E poi lo sciabordio d’acqua, i passi sul ponte che scricchiola, il sibilo di un sonar, il rumore del vento che spazza le vele della nave, forse canti, poi, di tanto in tanto, suoni squillanti di campane, come a dare la sveglia.
Perché non è un sogno, siamo sempre su questa terra e facciamo cose indicibili, come la guerra. Si alzano le voci, riverberate, che narrano la storia della barca su cui siamo alla deriva, la “ship” del comandante Brian Eno, il suo personale Titanic, opera concept uscita nel 2016 e mai, prima d’ora, portata in scena.
Voci metalliche e creature marine
Lui è lassù, semi nascosto, sul ponte di comando dietro la folla suonante sul palco, nei pressi il fidato chitarrista Leo Abrahams, il tastierista Peter Chilvers, le voci di Melanie Pappenheim e dell’attore Peter Serafinowicz, quasi tutti presenti anche nel disco uscito a suo tempo per la Warp. La voce si fa metallica, inquietante, e l’atmosfera cupa, gli ottoni vomitano terrore, i sintetizzatori stridono, l’oceano è in tempesta e ogni singola creatura marina sul palco si agita, muovendosi in simbiosi col suo strumento. E’ la prima guerra mondiale ad aver ispirato Ships di Eno, e questo sferragliare è il medesimo di oggi, e di ogni guerra.
Così come l’album The ship è la perfetta quadra tra il Brian Eno autore di canzoni e quello sperimentale, strumentale e dilatato della musica ambient, anche qui abbiamo un virtuoso bilanciamento tra pieni e vuoti, tra momenti meditativi e liquidi e sferzate di energia vitale, ammonizioni, cataclismi: “Nel pubblico vedo le facce di chi si aspettava un tranquillo concerto di musica ambient e non così tante esplosioni sonore, come quelle che state ascoltando”, ci comunica Eno divertito.
No, certamente non è un concerto di musica ambient. E’ una meditazione sull’orrore della guerra, sul nostro destino e la nostra umana indole, per cui è molte cose assieme, tutte piuttosto incoerenti.
Brian Eno e l’IA filosofico
Su Fickle (ii) The hour is thin, la voce narrante di Eno, si fa dura e si chiede: “State lottando, ma per quale destino?”, una domanda estremamente condivisibile, anche sapendo che a scrivere queste parole, nel 2015, fu un algoritmo generatore di testi, in pratica l’antesignano dell’IA dove però il data engineer era proprio Eno. E quando tutto sembra andare per il peggio, ecco un cambio di registro. Dal cupo magma strumentale si apre uno spiraglio, la musica si fa più melodica ed ecco giungere le canzoni: Eno canta (indugiando anche troppo sulla falsariga di David Sylvian), è la terza parte del concept, la liberazione.
E c’è spazio anche per Flike sun (iii) I’m set free, libera reinterpretazione del pezzo I’m set free dei Velvet Underground del 1969: “Mi avevano accecato, ma adesso sono di nuovo libero, libero per trovare una nuova illusione”.
Le canzoni di un’opera corale
Liberazione, illuminazione e pioggia di applausi con la Fenice che abbraccia il vincitore del Leone d’Oro 2023: “E’ la prima volta che portiamo questo spettacolo dal vivo ed è piuttosto difficile: ma ce l’abbiamo fatta grazie a questa incredibile, meravigliosa orchestra, che non sarebbe giusto definire orchestra ma band, una sorta di orchestra versione gorilla”. E poi, dopo la presentazione dei musicisti, l’inatteso, oltre ogni felice aspettativa: “Ora vorrei suonare un pezzo che ho scritto molto tempo fa”. E attacca By this River. Anche qui acqua, un fiume che ci pone di fronte all’unica domanda possibile, all’elucubrazione esistenziale: “Come su un oceano / aspettando qui / sempre senza ricordare perché siamo venuti / mi chiedo perché siamo venuti”.
Il resto sono canzoni, col registro basso di Eno che esorta, rassicura o redarguisce. “Se continuate ad applaudire il concept non finirà mai”, dice col sorriso, ringraziando il pubblico del calore immenso. Qui non c’è solo il guru della ambient, il Brian Eno monade, sperimentatore isolato nella sua musica per non-luoghi, qui c’è un’opera fortemente corale, collaborativa, dove il nostro aggiunge elementi come il brano Who Gives a Thought, meditazione filosofica e politica sul nostro tempo isterico dal suo ultimo album ForeverAndEverNoMore del 2022: “Chi si preoccupa delle lucciole / brevi vite di luce in movimento (…) O per germi non studiati / di nessun valore commerciale (…) E chi si preoccupa dei lavoratori / quelli che scavano e zappano / che saldano, mietono e seminano / che intrecciano, tagliano e macinano…”.
Standing ovation
E ancora la visionaria e poetica And then so clear da Another day on earth (2005) con Eno che gioca col vocoder e il direttore d’orchestra che balla all’impazzata. Un tripidio a cui il pubblico risponde con una standing ovation.
Poi il primo bis strumentale di Making gardens out of silence in the uncanny valley e la chiusura epica, portentosa, con There were bells”(2022), ancora un rintocco di campane per risvegliarci dal torpore in cui l’umanità è adagiata mentre – parole di Eno durante l’incontro pomeridiano – “il mondo va in fiamme”.
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