Un palco piccolo, quello dell’Orion Club di Ciampino. Stenta a contenere tutta l’energia di Francesco Motta, che salta, canta, suona il piano e la chitarra, si butta per terra e possiede la scena dal primo all’ultimo minuto. Con la verve di un rocker e la delicatezza di un cantautore, nella tappa romana del tour La musica è finita, l’artista si esibisce con la sua band (impeccabile per tutto il concerto) composta da Giorgio Maria Condemi alle chitarre, Francesco Chimenti al basso e al cello, Davide Savarese alla batteria e Whitemary ai synth e all’elettronica.
Un fulgido ritorno sulla scena e al calore dei club, ripagato dalla dedizione di un parterre attento e perennemente coinvolto. Perché forse l’esibizione intima live è la dimensione espressiva ideale della tournée La musica è finita, tra vecchi successi e nuove composizioni, nel segno di un nuovo inizio, di una volontà ritrovata dopo un periodo di incertezza. “C’è stato un momento in cui pensavo di avere esaurito i modi di interpretare la musica, invece il problema era che non avevo alzato lo sguardo”.
E questo sguardo si amplia ulteriormente col ritorno alla strada degli esordi: la scrittura di musica per cinema. La ripercorre con Non riattaccare di Manfredi Lucibello, pellicola presentata al Torino Film Festival 2023 per cui Motta ha composto le musiche originali. Una modalità di concentrarsi su qualcosa all’infuori di sé, per compensare la solitudine del lavoro da solista e ristabilire l’ego dopo anni di auto promozione. “Penso che prima o poi farò un live di sole colonne sonore”, fantastica, immaginando un futuro non così remoto, “ma solamente pezzi miei. Per le cover non sono mai stato particolarmente ferrato”.
Com’è stato il ritorno in live dopo tanto tempo?
Penso che la vita di chi scrive le canzoni sia scandita da vari e diversi momenti, a prescindere dal riscontro del pubblico. In alcuni momenti ti senti più a fuoco, in altri cerchi qualcosa che non riesci a trovare. Non dico che ora io questo qualcosa l’abbia trovato, però mi sento più tranquillo, mi conosco meglio. È una fase artistica molto stimolante per me, sono ritornato a fuoco su ciò che voglio dire e su come lo voglio dire.
La musica è finita indica una rottura con il passato. Una fine netta e dunque un nuovo inizio.
La definirei una fine necessaria, più che una rottura. È come se si fosse chiuso un ciclo e avessi spalancato delle porte nuove, a partire dall’uso dell’elettronica e a finire col linguaggio dei testi. Sancire una fine mi è servito a trovare un nuovo punto di vista. C’è stato un momento in cui pensavo di avere esaurito i modi di interpretare la musica, invece il problema era che non avevo alzato lo sguardo.
È stata una riscoperta personale?
Sono riuscito a mettermi più a fuoco dandomi nuovi stimoli. È la prima volta che mi capita di avere voglia di fare musica, di andare in studio e di scrivere. E questo è un segnale del fatto che questo momento va cavalcato.
Ha composto anche musica da cinema. Come vive la differenza tra scrittura autonoma e per colonne sonore?
Quella della musica da cinema era la mia prima strada. Ho iniziato come compositore ed ho frequentato un corso di colonne sonore al Centro Sperimentale. Lì ho svolto un lavoro perlopiù tecnico, scevro dal tipo di formazione da conservatorio, che mi ha consentito di lavorare per dei cortometraggi e documentari. È stata la prima volta che non mi sono sentito in difetto per il mio apprendimento precedente, da autodidatta.
C’è un denominatore comune tra i due tipi di composizione?
Ho sempre vissuto in maniera molto staccata la scrittura di canzoni da quella per colonne sonore. Adesso invece vedo che le due cose si influenzano a vicenda e iniziano a comunicare fra loro. Alla fine, fare una colonna sonora è un po’ come arrangiare un testo già scritto.
Cosa cambia nel processo creativo?
Cambia la mia percezione. Io sono un solista, e nonostante sia sempre affiancato da manager, produttori e musicisti, sento spesso una solitudine, che invece non percepisco assolutamente quando scrivo colonne sonore. Rispetto alle canzoni, percepisco un risultato finale all’infuori da me. Tutti combattono per il film, e piace tanto perché abbassa l’ego, è terapeutico.
È necessario dopo anni di promozione da solista?
Esatto. Il lavoro della musica per cinema è molto più simile al motivo per cui ho iniziato. Con le colonne sonore è difficile che mi ritrovi a fare interviste, a spiegare perché le ho fatte, a fare shooting o a pensare a un titolo per la copertina. Per quanto chiunque faccia musica sia vanitoso, il fatto che non ci siano questi elementi di auto-promozione è piuttosto rassicurante.
L’impressione è che anche nelle colonne sonore che produce per altri ci sia sempre un suo tratto riconoscibile. Come riesce a farlo adattandosi alla sinossi e alle necessità del film?
Musicalmente, le colonne sonore mi lasciano molta più libertà di quella che mi lasciano le canzoni, non so perché. Forse fin ora sono stato fortunato perché ho trovato dei tipi di racconto legati al mio modo di scrivere. Se mi capitasse di fare una commedia, probabilmente sarebbe più difficile ed estraneo. Il fatto che queste colonne sonore si parlino tra di loro è perché forse si parlano anche i film di cui fanno parte.
Che esperienza è stata quella con Non riattaccare al TFF?
Bellissima, la squadra era molto unita. Mi sono trovato benissimo con Claudio Santamaria, che conoscevo già, e con Barbara Ronchi, una delle migliori attrici che abbiamo in Italia. È un film in cui tutti hanno spinto al massimo, e vederlo in sala mi ha emozionato, perché la condivisione rende tutto più speciale. Probabilmente tutti i film rendono di più in sala, ma questo in particolare per il tipo di storia, per le immagini e per il suono.
Da come parla, le colonne sonore sembrano la sua via prediletta di fare musica.
Mentre a volte mi è capitato di non avere voglia di scrivere una canzone, non mi è mai capitato di non voler fare musica. È un elemento sacro che devo sempre ricordarmi. Grazie alla musica ho trovato il mio posto nel mondo: quest’arte è diventata parte del mio respiro. Perciò spero in futuro di riuscire a portare avanti musica mia e musica per cinema con la stessa attenzione, perché finalmente vivo due mondi che iniziano a parlarsi. Penso che prima o poi farò un live di sole colonne sonore.
Ci sono stati momenti in cui si è chiesto perché lo stesse facendo o se avesse sbagliato strada?
Perché lo sto facendo me lo chiedo ogni giorno. Di aver sbagliato strada non l’ho mai pensato, però. Ho sempre lavorato nell’ambito musicale, e qualsiasi lavoro io abbia fatto mi ha sempre reso felice. L’unico modo per riuscire in questo mestiere è farlo col sorriso. I contro, anche se non si vedono da fuori, sono tanti. Puoi avere 18, 20, 30 o 50 anni, ma per sopportare tutto questo, ti deve piacere veramente tanto.
Se fosse un esordiente di diciotto anni, penserebbe di tentare la strada dei talent?
Quando avevo diciotto anni i talent erano troppo distanti da quello che volevo fare: i primi in classifica per me erano quelli da combattere. Per cui direi no, non lo farei. Forse, però, non sono abbastanza sul pezzo per capire quante possibilità ci siano di intraprendere un’altra strada rispetto ai talent. Non ci sono tutte le alternative che c’erano quando ho iniziato io: noi andavamo a suonare gratis ovunque, perché ce lo permettevano. Ora penso che sia cambiato tutto per un tipo di curiosità che è venuta a mancare da parte della gente, che prima andava a vedere anche chi non conosceva. Oltretutto, anche i promoter si prendono meno responsabilità.
C’è meno presa di posizione nella musica attuale?
Noi lavoriamo con le parole, bisogna usarle nel miglior modo possibile. Per me è una responsabilità necessaria, non mi forzo a farlo. Mi sento vicino al livello di responsabilità che c’era anni fa nel cantautorato. Allora era quasi obbligatorio prendere posizione. Tutti lo esigevano, perché la politica era più vicina alle persone, se ne parlava anche nei bar. Adesso va più di moda dire tutto e non dire niente, stare un po’ di qua e un po’ di là. Io non sono così e non ci posso fare niente.
Tempo fa si era detto stupito del fatto che Salvini potesse ascoltare De André.
La musica è libera, non penso che qualcuno non debba ascoltare qualcosa. Tuttavia, mi torna molto strano il fatto che Salvini possa ritrovarsi in uno come Fabrizio De André, che parlava degli ultimi, lo stesso tipo di persone che lui attacca. Sono due modi completamente diversi di vedere la vita, di pensare, di parlare. Nel momento in cui si incastrano, mi viene da pensare che qualcuno non abbia approfondito il testo, non vedo alternative.
Nelle ultime settimane si è parlato della trap come una delle cause scatenanti della violenza dilagante nel nostro paese. Cosa ne pensa?
Anche se nel 99% dei casi non parlano il mio linguaggio, più che istigare alla violenza, penso che alcune canzoni esaltino un certo tipo di capitalismo e di consumismo che a me non torna. Ad ogni modo, ciò che accade nella musica è un riflesso della nostra società. Non trovo affatto una volontà diseducativa nella trap. La trovo nella politica, a volte nella scuola, ma mai nelle canzoni. Questa svolta violenta è solo una conseguenza di altri problemi ben più gravi. Sarebbe molto più intelligente andare a scoprire il perché di certe tendenze, piuttosto che incolpare e censurare ancora una volta la cultura.
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