“Squaglio le ciocie sui sampietrini, amici desaparecidi. Americane alla John Cabot, parcheggiatori abusivi. La solita vecchia Santa Maria, ‘na margherita a porta’ via”. C’è un disco del 2017, Polaroid, che sembra un film. Dieci tracce che raccontano le storie di due ragazzi, un tempo amici, Carlo e Federico – in arte Carl Brave e Franco126 – tra “fiori cresciuti in mezzo ai sampietrini”, “scontri in curva tra polizia e ultras”. Sempre in due, come recita un loro brano. Poi però le strade si sono divise ed è rimasto solo quell’album a cristallizzare un tempo e un luogo precisi.
Il tempo è quello della generazione nata tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Duemila. Il luogo è Roma. Da Trastevere, sfondo di molti dei loro brani e ideale luogo di partenza per raccontare una città malinconica, isterica, nostalgica, tra “il bagno al Fontanone” e “un Super Tele che galleggia sopra il Tevere”. “Roma è la mia maggiore fonte d’ispirazione. Trastevere, dove sono cresciuto, tra i vicoli, le scalette, le piazze, davanti al Calisto, è la casa dei miei racconti” dice Carl Brave. “Sono molto autobiografico. Quello che scrivo nei pezzi è semplicemente la mia vita, quello che mi è successo negli anni”, continua il cantautore. “La mia scrittura è estemporanea, fuori dal tempo. Magari in una barra parlo di una cosa successa oggi e in quella dopo di un ricordo d’infanzia”.
Carl Brave, Franco126 e la Lovegang
Una scrittura figurativa capace di evocare immagini condivise che raccontano la storia di chi canta ma anche quella di chi li ascolta, magari in macchina con i finestrini rigorosamente abbassati, incastrati nel traffico infernale del Lungotevere. È proprio in quella zona al di là del fiume che si concentra la Lovegang, crew romana composta da Franco126, Ketama126, Pretty Solero, Drone126, Asp126, Ugo Borghetti e Nino Brown che deve il numero che accompagna i loro nomi agli scalini della Scalea del Tamburino, luogo caro a Sergio Leone tra Viale Glorioso e Via Dandolo, in cui hanno trascorso l’adolescenza.
“Ci incontravamo in quelle scale ai gradini più in alto. Affogavamo i mozziconi in un mare d’asfalto”, scrive Franco126 in Ieri l’altro dedicata a Gordo, uno dei fondatori del collettivo scomparso troppo presto. Un gruppo di ragazzi cresciuto tra rap, hip hop, indie e quel nuovo cantautorato italiano fatto di diverse contaminazioni e suggestioni di cui sono diventati la voce. Lo hanno fatto raccontando i sentimenti, le sconfitte, l’amore e una quotidianità fatta di istantanee che ogni romano conosce, tra gabbiani che “beccano nella mondezza” e il “grattacheccaro, da giugno a settembre”.
Artisti che hanno scelto di essere lontani dai luoghi comuni legati al rap e alla trap, senza l’ossessione macchiettista per le donne e i soldi, ponte tra il passato e il presente musicale della Capitale raccontata in tutte le sue fragilità “La città della lupa è una tartaruga. Invecchio in una ruga della metro B”. Eppure impossibile da non glorificare. “Ho visto dallo specchio la tua maglia Roma, ho letto “Amor”.
Musica cinematografica
La nuova scena romana – amata da cinema e serie tv che ne inseriscono i brani nelle loro produzioni – è ricchissima e si estende dal centro alla periferia fino a raggiungere il mare di Ostia e Fiumicino. Da Gemitaiz, colonna e simbolo dell’hip hop italiano che ha tracciato la strada per molti, a Gianni Bismark, da Side Baby a Laila Al Habash (che ha aperto i concerti di Coldplay e Lana Del Rey) passando per Fulminacci, I Cani, la Dark Polo Gang, Galeffi, gli Psicologi, Mara Sattei, Peter White, Margherita Vicario e, naturalmente, Ariete.
È lei a spiegare: “Per me Roma è la tela bianca su cui avvengono tante cose. Un po’ di tempo fa ho scritto un pezzo che parlava di un autobus che prendevo. Non l’ho mai pubblicato, però la città per me è la base di tutto. La maggior parte delle mie canzoni sono ambientate qui senza che nemmeno si sappia. Roma è una città più malinconica di altre. Esci di casa e dici: ‘Wow, guarda dove sto?’. E pensi un po’ di più”.
La generazione di Gazzelle
E poi c’è lui: Thasup. Classe 2001 e un talento fuori dal comune. Conosciuto in precedenza come Tha Supreme, pseudonimo di Davide Mattei, dietro alla sua felpa con cappuccio viola e l’anonimato ha sfornato una collaborazione dietro l’altra producendo artisti come Salmo e Ghali. La sua firma è inconfondibile e rappresenta un filo rosso che da Fabri Fibra arriva fino a Gazzelle, cantautore di Prati, (al secolo Flavio Bruno Pardini). Che nel 2017 mentre incideva Superbattito, lavorava ancora in una pizzeria. Nel 2023 si è esibito all’Olimpico. Sei anni in cui è diventato il custode di tormenti, sentimenti e paure della generazione dei trentenni.
Gazzelle canta delle sue esperienze di vita: relazioni finite, depressione, assenze, spaesamento. Chi lo ascolta riflette le proprie. “Ma abbiamo tutta la vita davanti. Sì, davanti a un bar. Mentre la notte ci mangia la pelle, fermatela. Spegnete i colori, i tormenti, i dolori, gli ombrelli e i malumori. Che noi stiamo bene anche soli”. Se la scrittura di Carl Brave e Franco126 è cinematografica, quella di Gazzelle è come un flusso immaginifico debitore tanto della poesia quanto di Rino Gaetano. “È come fossimo ancora in due. Anche se siamo lontani, divisi in due. È come fossimo ancora qui. La tua bocca che sbadiglia, sul letto una tua ciglia. Ma io dormirò ancora, nel fondo di una bottiglia”.
Ma se Roma avesse oggi una colonna sonora sarebbe forse quella scritta e cantata da Coez. Nato a Nocera Inferiore, ma romano da sempre. “Sono stato adottato dalla città. Sono contento di rappresentarla. Roma mi ha dato tanto e spero di ricambiarla ogni volta”. Cantautore e rapper. Ma prima ancora graffitaro. Il suo nome nasce dal tag con cui si firmava da adolescente sui vagoni della metro o sui muri della città, compreso quello del Cine-TV Rossellini di via Libetta – “In qualche modo ho iniziato lì a fare la musica”. Dalla Garbatella al Quadraro passando per Ponte Milvio. Qui, curiosando tra i lucchetti lasciati da coppie di innamorati, sono i suoi versi a farla da padrone, Coez è parte della Capitale.
La città secondo Coez
Le luci della città, È sempre bello, La musica non c’è, Faccio un casino, La tua canzone. Non c’è romano – anche se la sua musica ha ampiamente superato i confini del Grande Raccordo Anulare – che non le conosca a memoria. Ma c’è un brano, Mamma Roma, inedito mai registrato scritto per la città: “Anche se nessuno l’ha descritta meglio del Colle der Fomento ne Il cielo su Roma” dice Coez. Era il 7 luglio 2018 la prima volta che l’ha condivisa con il suo pubblico.
“È stata la cosa di un momento. L’ho fatta live la prima volta a Rock in Roma e poi in un palazzetto” ricorda. “Non è una canzone che ho mai pensato di incidere”. Coez sul palco, Niccolò Contessa, l’autore della musica, al piano. E parole per una ninna nanna obliqua: “Mi ha voluto bene qui. M’ha fatto del male pure. La stessa persona. C’è una finestra al quinto piano, sembra stia guardando proprio me. Io sto vagando senza un perché. Ed ogni posto è come se c’avesse inciso un nome. Il Cupolone cresce mentre guardo indietro. Lo chiamano San Pietro. La strada questa notte è il mio parquet. Io sto ridendo senza un perché. E ritornerò da te. Col poco che ho trovato fuori. E cerco un posto per me. Mi perdo dentro Mamma Roma. Buonanotte Mamma Roma”.
Questo articolo è pubblicato nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, dedicato a Roma.
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