Un giorno d’autunno del 1975, Sam Shepard – il drammaturgo più popolare su entrambe le sponde dell’Atlantico – era rientrato nella sua nuova casa nella California del nord e aveva trovato ad aspettarlo un appunto: aveva chiamato Bob Dylan. Non avendolo mai incontrato, il 31enne Shepard richiamò il numero segnato sull’appunto venendo a sapere che Dylan voleva che scrivesse la sceneggiatura di un film basato sul suo imminente tour, la Rolling Thunder Revue, piena di star. Shepard – che più in là sarebbe stato nominato agli Oscar per il suo ritratto di Chuck Yeager, il più famoso pilota collaudatore americano, in Uomini veri – aveva talmente paura di volare che erano dodici anni che non prendeva un aereo, quindi attraversò il Paese in treno per andare a incontrare Dylan a New York. Come racconta Robert Greenfield in un estratto esclusivo da True West – la sua nuova biografia, dedicata a Shepard, che attinge da ampi reportage e dagli scritti dello stesso drammaturgo – gli eccessi del tour e lo “scontro tra culture” si dimostrarono troppo impegnativi.
In viaggio per vedere “il Mago”
Come aveva già fatto a 19 anni nel 1962, quando era andato a trovare i nonni in Illinois, Sam Shepard stava attraversando di nuovo l’America in treno. Ora, però, era, come diceva lui, “in viaggio per vedere il Mago”. Dopo aver preso la coincidenza a Chicago, aveva proseguito fino a raggiungere finalmente la Grand Central Station. Paralizzato dalla consapevolezza di essere davvero tornato a New York City, Shepard restò nel suo scompartimento finché sul treno non c’era quasi più nessuno.
Dopo essere stato accompagnato ad incontrare Louie Kemp, grande amico di Dylan – che era stato messo a capo del tour – Shepard era stato scortato, superando vari livelli di sicurezza, nell’edificio di Studio Instrument Rentals tra la 36esima strada e la decima Avenue. Là, era entrato in contatto per la prima volta con molti di quelli che avrebbero partecipato al tour, compresi Allen Ginsberg e Bobby Neuwirth, un altro amico di vecchia data di Dylan, che aveva rievocato con Shepard le loro serate negli anni Sessanta, quando avevano fatto parte entrambi della scena del Max’s Kansas City.
Capolavori in mezzo ai ratti
Tutto questo era solo un preambolo dell’evento principale della serata, il primo incontro tra Sam Shepard e Bob Dylan. Come due grandi e potenti pianeti che ruotano intorno a sistemi solari del tutto separati, i due uomini avevano lentamente gravitato l’uno verso l’altro sin da quando si erano ritrovati vicinissimi, senza mai saperlo, al Village Gate nel Greenwich Village, quando Shepard lavorava lì come aiuto cameriere, mentre proprio lì a fianco Dylan stava scrivendo alcune delle sue più celebri canzoni nell’appartamento infestato dai ratti del tecnico del suono e delle luci Chip Monck.
Dopo essere stato condotto in un lungo corridoio scuro, Shepard trovò Dylan sdraiato su una sedia pieghevole di metallo in una stanza buia sul retro, con i suoi logori stivali da cowboy appoggiati a una scrivania di metallo. Da quello che poteva vedere Shepard, Dylan era “blu”. Era “tutto blu, dagli occhi fino ai vestiti” Per “circa sei minuti di fila”, mentre fissava Dylan, Shepard lo vide così come appariva su tutte le copertine degli album che avevano fatto parte dell’arredamento di ogni appartamento puzzolente del Lower East Side di Manhattan e nei tuguri hippie in tutta l’America per oltre un decennio.
Dopo un commento ambiguo sul fatto che non dovevano avere una connessione a livello personale – che aveva spinto Shepard a chiedersi se intendesse nella vita reale o sulle scene per il film che stavano per girare – Dylan chiese a Shepard se avesse mai visto Amanti perduti o Tirate sul pianista. Shepard, che li aveva visti entrambi, chiese a Dylan se quello fosse il tipo di film che voleva fare. “Qualcosa del genere”, disse Dylan, prima di cadere in un silenzio così profondo che Shepard poteva sentire quelle parole risuonare ancora e ancora nella sua testa.
Una percezione assolutamente distorta
Facendo del suo meglio per riempire il vuoto, Shepard citò una scena che lui e la troupe avevano già pensato di girare, con Ramblin’ Jack Elliott nel bagno del Gramercy Hotel, dove alloggiavano tutti i partecipanti al tour. Il volto di Dylan si illuminò sentendo il nome di Elliott. Nel mondo secondo Bob Dylan, Jack Elliott era un’autorità assoluta. Era la connessione vivente con il grande idolo di Dylan, Woody Guthrie, che aveva ispirato Robert Allen Zimmerman di Hibbing, Minnesota, a iniziare il percorso che alla fine l’avrebbe portato a vincere il Nobel per la letteratura nel 2016.
Dylan disse a Shepard che quello di cui aveva più bisogno in quel momento era andarsene fuori città. Una volta in viaggio, sarebbero riusciti davvero a immergersi insieme nel film .
Una volta credeva che “l’unico posto adatto per scrivere fosse il treno”, motivo per cui Shepard aveva già sfruttato il tempo passato ad attraversare il Paese iniziando a lavorare sul film per il quale pensava che era stato assunto da Bob Dylan. Nel tempo impiegato per arrivare a New York, aveva scritto quelle che il direttore di palco del tour, Jacques Levy, aveva definito “due scene per un qualche film che lui aveva in testa, che pensava che Bob avrebbe voluto fare. Era una percezione completamente distorta. Hanno cercato di lavorare un po’ sulle due scene che aveva portato (io non ero coinvolto)… e nessuna ha funzionato”.
Tre torte e una penna gigante
Il 5 novembre 1975, giorno del suo trentaduesimo compleanno, Shepard si ritrovò seduto di fronte a tre torte, una penna gigante, una rana sessuale borchiata, e altri regalini assortiti, al Red Lion Inn di Stockbridge, Massachusetts. A Springfield, Massachusetts, la sera seguente, disse all’addetta stampa del Rolling Thunder, Chris O’Dell – che aveva lavorato con alcune delle più grandi band degli anni 60 e 70, e con cui Shepard, sposato, avrebbe avuto una relazione durante il tour – , che non aveva idea di cosa ci facesse lui in quel tour. Anche se Dylan l’aveva coinvolto per scrivere la sceneggiatura, tutto riguardo al progetto del film era così disorganizzato e caotico che Shepard confessò di non avere idea di come relazionarsi a “questo stile di vita rock’n’roll”.
Confidandosi con O’Dell, spiegò che, siccome nessuno si presentava mai alle scene in cui dovevano apparire, ora volevano fargli “scrivere i dialoghi appena accaduti”. E lei, ricordandosi una conversazione che avevano avuto qualche giorno prima, gli disse: “Ma Sam, tu mi avevi detto che volevi essere una stella del rock’n’roll!”
“Sì,” rispose, “ma volevo solo suonare. Non era questo che volevo fare”.
Il copione finì in soffitta
Nel suo libro-verità del 1977, Diario del Rolling Thunder. Dylan e la tournée del 1975, Shepard descrive questo momento del tour come quello “in cui l’esperimento cinematografico” cominciò a “diventare interessante. Abbiamo abbandonato l’idea di sviluppare una sceneggiatura impeccabile o anche solo un canovaccio di copione”, dato che era ormai evidente che i musicisti, tra cui T Bone Burnett, Roger McGuinn, e il chitarrista di David Bowie, Mick Ronson, non avevano intenzione di “sfinirsi a memorizzare battute nel loro tempo libero”.
Dato che erano tutti impegnati a provare tutta la notte, o a suonare nei concerti o a fare jam session, per poi crollare alle sei o sette del mattino”, era quasi impossibile “radunarne anche solo due nello stesso momento davanti a una telecamera”. E quindi Shepard e la troupe erano “passati all’idea di scene improvvisate in situazioni rilassate”.
Dopo aver ripetutamente affermato che il suo vero obbiettivo di vita era sempre stato quello di diventare una rock’n’roll star, Shepard non riusciva a tollerare la follia quotidiana della vita on the road. “Sam la odiava,” dice O’Dell. “Odiava tutto di quella vita. Odiava spostarsi da un posto all’altro. Odiava doversi trovare in un certo posto a un certo orario, tutto quanto. Era seccato e voleva lasciare il tour, perché tutta questa cosa del film era solo un casino”.
Coinvolgere Orson Welles?
In un tour in cui la pretenziosità aveva raggiunto livelli mai visti già dopo pochi giorni di lavoro sul film, Lou Kemp convocò Shepard per una “riunione segreta” per parlare di quello che serviva “per far decollare questo film.” L’idea di Kemp era di coinvolgere Francis Ford Coppola o Orson Welles per subentrare a Shepard nel progetto. Come disse Kemp a Shepard, “Stiamo cercando dei pezzi grossi, capisci”.
Come sempre, copiose quantità di alcol aiutavano a sopportare la follia. Come disse più avanti Ramblin’ Jack Elliott, al Rolling Thunder Revue praticamente erano tutti ubriachi tutto il tempo, per trentuno giorni di fila. E c’era così tanta cocaina a disposizione nel tour che Joni Mitchell, che non aveva mai provato quella droga prima di unirsi al Rolling Thunder Revue, chiese di essere pagata con la sostanza anziché in denaro, stando a Reckless Daughter, il libro di David Yaffe del 2017 sulla cantautrice.
Prendendo atto dell’onnipresenza della droga, Allen Ginsberg scrisse una poesia di quattro versi in cui fece notare che nessuno avrebbe salvato l’America sniffando cocaina, ma che “quando nevica nel tuo naso, il tuo cervello prende il raffreddore”.
Joni Mitchell nascosta in bagno
Mitchell era arrivata in aereo da Los Angeles per unirsi al Rolling Thunder Revue a New Haven, nel Connecticut, il 13 novembre 1975. Dopo aver registrato sei album acclamati dalla critica nei precedenti sette anni, era all’apice della sua carriera. Un’artista rivoluzionaria, la cui musica sarebbe solo cresciuta di importanza nei cinque decenni successivi, Mitchell era anche, proprio come Bob Dylan, un talento unico della sua generazione.
Nonostante Shepard avesse già una relazione con Chris O’Dell, il fascino di Joni Mitchell non passò certo inosservato. A Niagara Falls, solo due giorni dopo che Mitchell si era unita al tour, O’Dell cercò Shepard dappertutto dopo lo show, senza trovarlo. A colazione la mattina dopo, sentì qualcuno dire che Shepard era stato visto in giro con Mitchell la sera prima. Quando più tardi quella mattina O’Dell lo vide, lo ignorò, ma notò che aveva un’aria colpevole. Quando non si presentò nella hospitality room in cui di solito lui la incontrava dopo lo show, decise di prendere in mano la situazione andando a bussare alla porta della sua stanza.
Dopo essersi annunciata, O’Dell aspetto finché Shepard aprì finalmente la porta. In una scena che non sarebbe stata fuori posto in una sitcom, Shepard tornò a letto, intrecciò le mani dietro la testa e guardò O’Dell con “un dolce sorrisetto.” Quando lei gli chiese perché non era sceso nell’hospitality room, lui le rispose che era stanco e quindi era “rimasto qui a ciondolare”. Fu allora che O’Dell, che era entrata nella stanza ed era seduta dando le spalle alla porta, sentì la porta aprirsi e richiudersi. Shepard, con l’aria più innocente del mondo, disse: “Oh, cos’è stato?”
Avendo capito che Joni Mitchell era rimasta nascosta tutto quel tempo in bagno ed era appena sgattaiolata fuori dalla stanza, O’Dell disse, “Sam, chi è stato?”. “Nessuno,” rispose lui. “La sai una cosa?” gli disse O’Dell. “Sei una merda.” E poi uscì anche lei.
Sam Shepard maltrattato da Bob Dylan
A differenza di quasi tutti nella Rolling Thunder Revue, Larry Sloman sapeva che Sam Shepard era un drammaturgo vincitore di vari Obie Award. Sloman, che aveva un master in devianza e criminologia ottenuto alla University of Wisconsin, si era unito al tour come reporter per Rolling Stone. Dopo aver lasciato l’incarico perché “tutto quello che volevano sapere era quanti soldi stesse guadagnando Dylan in quel tour, che per me invece era un grande evento culturale”, iniziò un’epica battaglia per ottenere il permesso di rimanere nel Rolling Thunder Revue, così da poterci scrivere un libro.
Soprannominato “Sozzo” da Joan Baez – che trovava assomigliasse a Rizzo il “Sozzo”, il personaggio di Dustin Hoffman in Un uomo da marciapiede – Sloman incontrò per la prima volta Shepard nella hall del Red Lion Inn di Stockbridge, subito dopo che due robusti addetti alla sicurezza, incaricati di tenere Sloman lontano dalle celebrità del tour, l’avevano scaricato senza troppe cerimonie su un divano. Per usare le parole di Sloman, “Sam era in piedi vicino al bancone e io ho iniziato a lamentarmi e poi lui a lamentarsi con me”.
Il giorno del suo trentaduesimo compleanno, Shepard disse a Sloman, “sono incazzato. Mi hanno mentito… Sono pronto a lasciare tutto, ad andarmene a casa. Mi avevano fatto delle promesse riguardo ai soldi ma poi non le hanno mantenute.”
Come dice Sloman, “Sam fu scontento per tutto il tour. Aveva tutti quei premi, aveva un nome e un ego, poi è venuto in tour per essere maltrattato da Dylan, che praticamente buttava via tutto quello che Sam aveva scritto e gli diceva, ‘Inventiamoci tutto.’ Non c’era un copione per quel film. Stavano improvvisando, e non sapevano quello che facevano”.
Sloman era con Shepard quando il drammaturgo capì di averne avuto abbastanza. I due avevano passato una bizzarra serata insieme a Boston, quando erano andati nel backstage per vedere i Tubes suonare il loro album d’esordio, White Punks on Dope. Avevano poi seguito la corista Jane Dornacker, che più avanti sarebbe apparsa con Shepard in Uomini veri, in un camerino, dove “lunghe righe di neve” venivano “inalate sopra la copertina di un disco”.
E mentre Sloman ricordava il tour di Rolling Thunder come “la cosa più bella del mondo” e ” il momento culminante della mia vita”, Shepard si sentiva come se stesse “crollando a causa del tour”, mentre veniva anche trasportato indietro “alla metà degli anni Sessanta, quando la metanfetamina era l’unica cosa che mangiavo con le Yellow Jackets e le Black Beauties come dessert”.
Gli anni Sessanta? Facevano schifo!
Perdendo completamente il controllo, Shepard scriveva: “NON VOGLIO TORNARE AGLI ANNI SESSANTA! GLI ANNI SESSANTA FACEVANO SCHIFO AI CANI! GLI ANNI SESSANTA NON SONO MAI ESISTITI!”. Tre giorni dopo, a Bangor, nel Maine, salì su un’auto a noleggio e lasciò il tour del Rolling Thunder dirigendosi a New York City.
L’8 dicembre 1975, la Rolling Thunder Revue si concluse con un concerto di beneficenza tutto esaurito per Rubin “Hurricane” Carter, il pugile ingiustamente condannato a cui Dylan si era ispirato per l’epica canzone Hurricane, davanti a quattordicimila persone al Madison Square Garden. Al pantheon di star che si erano esibite in trenta spettacoli nel corso di quaranta giorni si aggiunsero Muhammad Ali, Coretta Scott King, Robbie Robertson e Roberta Flack. Nonostante la natura drammatica del concerto finale, Shepard stesso aveva altro a cui pensare.
Di lì a quattro giorni, Geography of a Horse Dreamer – un’opera teatrale che nessuno a New York aveva mai visto, scritta da Shepard e messa in scena per la prima volta a Londra con Bob Hoskins e Stephen Rea nel cast – sarebbe stata inaugurata al Manhattan Theatre Club, un locale da novanta posti allora situato sulla East Seventy-third Street tra la Prima e la Seconda Avenue.
Alla pressione di avere tutti i più importanti critici della città a recensire l’opera di Shepard, si aggiunse il fatto che Bob Dylan e sua moglie, Sara, avevano detto a Shepard di voler vedere lo spettacolo. Lui li invitò alla prima rappresentazione solo per sapere che sarebbe stata anche un’anteprima per la stampa. Come scrive in The Rolling Thunder Logbook: “Fantastico, un pubblico pieno di critici e Bob Dylan. Non poteva andare peggio”.
Un silenzio assordante
Nonostante le sue molteplici responsabilità nella tournée, Jacques Levy aveva scelto di partire per poter passare due settimane a dirigere le prove di Geography of a Horse Dreamer, a cui partecipava anche Shepard. La sera della prima dello spettacolo, Levy era anche disposto a tenere il sipario chiuso fino a quando Dylan, che Shepard in seguito descrisse come “ubriaco”, non fosse finalmente arrivato con Sara, Bobby Neuwirth, Louie Kemp e un altro dei suoi collaboratori al seguito.
Dal suo posto in fondo al teatro, Shepard capì che il suo spettacolo stava morendo sul nascere dal silenzio assordante della sala. Mentre stava lì “raggrinzito nel buio”, non poteva che chiedersi perché, tra tutte le sue opere, Dylan avesse scelto di venire a questa piuttosto che a quelle con musica o dialoghi che avrebbero fatto ridere il pubblico.
Non potendone più, Shepard uscì da una porta secondaria e stava per lasciare il teatro quando Levy gli si avvicinò. Offrendogli lo spinello che aveva in mano, il regista disse: “Tieni, Sam, qualcosa per il dolore”. Approfittando dell’offerta, Shepard fece un tiro pesante e poi capì che non aveva altra scelta se non quella di prepararsi all’agonia di vedere che quello che aveva scritto in privato veniva trasformato in un evento pubblico nel modo più doloroso immaginabile.
Fatto completamente, si diresse verso il bar nell’intervallo del primo atto, solo per poi tornare indietro e salire le scale quando vide le dimensioni della folla. Per quanto fosse stato brutto per lui fino a quel momento, Shepard si consolò pensando che Dylan aveva abbandonato lo spettacolo e che quindi non sarebbe stato presente per il secondo atto.
Tumulto in sala
Senza preavviso, Dylan uscì improvvisamente dal bagno degli uomini. Infilandosi in tasca una bottiglia di brandy, iniziò ad armeggiare con gli appunti che aveva scarabocchiato durante il primo atto. Notando Shepard, Dylan gli chiese come fosse finita la commedia. Gli chiese anche come mai uno dei levrieri della commedia si chiamasse “Sara D.”, avendo pensato che fosse un riferimento a sua moglie.
Dopo meno della metà del secondo atto, Shepard si accorse che due dei più importanti critici giornalistici della città stavano dormendo profondamente. Nel momento in cui il personaggio Cody stava per subire un’iniezione per rimuovere il suo “osso sognatore”, Dylan saltò improvvisamente in piedi e gridò: “Aspettate un attimo! . . . Aspettate un attimo! Perché gli hanno fatto l’iniezione? Non dovrebbe ricevere l’iniezione! Dovrebbe farlo l’altro! Dallo all’altro!”.
Mentre Louie Kemp iniziava a riportare Dylan al suo posto e Neuwirth gli ripeteva più volte di stare zitto, i critici di fronte a lui ripresero improvvisamente vita. Dylan balzò di nuovo in piedi e gridò: “”NON VOGLIO VEDERE! NON SONO VENUTO QUI PER VEDERE QUESTO!”. Lottando per sottrarsi alla “forte presa di Kemp”, mentre Neuwirth e gli altri cercavano di tirarlo di nuovo a terra, Bob Dylan non si fece negare. Per tutto il tempo, continuò a insistere: “NON DOVREBBE RICEVERE L’INIEZIONE! LA DEVE FARE L’ALTRO!”. Non appena lo spettacolo era terminato, Dylan uscì dalla porta e se ne andò.
Estratto dal libro TRUE WEST: Sam Shepard’s Life, Work and Times by Robert Greenfield. Copyright © 2023 di Robert Greenfield. Pubblicato da Crown, Random House, una sussidiaria di Penguin Random House LLC. Tutti i diritti riservati.
Traduzione di Nadia Cazzaniga
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