Trent’anni fa se ne andava uno spirito anarchico, uno dei maggiori geni del Novecento. Un musicista che tutta la vita ha celebrato la sacrosanta necessità di creare arte fuori dagli schemi. Oggi uno come Frank Zappa, l’outsider re dei freak, straordinario chitarrista, compositore, agitatore culturale nato nel 1940 a Baltimora da padre di origini siciliane (Partinico) e madre di origini francesi e italiane, sarebbe inimmaginabile. Poliedrico, fuori dal tempo, completamente disinteressato all’impazzimento mediatico, alle mode musicali, alla compiacenza altrui.
Ha fatto arrabbiare le femministe con la sua canzone Titties and Beer (“Tette e birra”), i gay, i benpensanti americani con il suo celeberrimo “toilet poster” (la sua foto seduto sul water), i giornalisti (su Over-Nite Sensation del 1973 descriveva i media come “lo strumento del governo / e anche dell’industria”, nella proverbiale I’m the Slime); ha massacrato con le sue sferzate ironiche i santoni televisivi e i politici, senza mai chiedere scusa. Uno come Zappa oggi verrebbe censurato, bacchettato dai moralisti del web, finanche denunciato.
Musica imprevedibile
Perché Zappa, autore di oltre sessanta album che veleggiano con virtuosismo e dissacrante ironia tra rock, blues, classica, jazz, musica contemporanea, elettronica, rumorismo, funk, rock demenziale e tutto quello che la sua mente assetata di sperimentazione era in grado di far suo, era un uomo libero. Absolutely Free, assolutamente libero, come il titolo del suo secondo album del 1967 seguito all’esordio Freak Out!. Dischi imprevedibili mentre fuori imperversava la Summer of love e si andava a celebrare Woodstock.
Un uomo libero che saltava da Pierre Boulez o Stravinsky alla pornografia, dal sarcasmo feroce sui paradossi americani al suo idolo di gioventù Edgar Varese, mentre tutti i suoi coetanei impazzivano per Elvis. Eppure Zappa aveva iniziato facendo proprio garage rock in uno scantinato con altri ragazzi che poi sarebbero diventati nel 1964 le Mothers of Invention.
Ma sulle dinamiche di mercato della rock revolution aveva le idee ben chiare: “Fare oggi rock & roll significa ottenere un contratto con una grande casa discografica e fare quasi solo quello che ti dicono di fare. Le case discografiche promuovono un’immagine selvaggia e divertente del rock & roll, mentre in realtà è solo un losco affare”. In prima linea, negli anni Ottanta, contro la censura e anche nella battaglia per riportare gli americani alle urne elettorali, rischiò anche di fare il politico, candidandosi nientemeno che alla presidenza degli Stati Uniti, con un programma il cui primo punto sarebbe stato “smantellare il governo”.
Elegantemente scorretto
Un uomo con l’idiosincrasia per i moralismi da due lire, le ipocrisie, uno che considerava l‘american dream una favola marcia. Uno che una volta ebbe a dire: “Al Junior college, che fui costretto a frequentare, lessi un libro intitolato Democrazia, un esperimento americano. Ed è vero. Nessuno ha mai dimostrato che possa funzionare. Penso ancora che sia un esperimento e che qualcuno deve dimostrarmi che funziona”. Zappa in quel melting pot di paradossi che sono gli Stati Uniti, funzionava, e funzionava essendo felicemente ed elegantemente scorretto, senza cercare il clamore e senza offendere nessuno, grazie alla sua accesa intelligenza. In America le radio lo hanno trasmesso col contagocce, in Europa è diventato un mito assoluto, con un pubblico di amatori ai limiti del proselitismo.
Soprattutto Zappa era musica: musica che frulla continuamente nel cervello, per cui investiva ogni sforzo e ogni centesimo: “La maggior parte dei musicisti guadagna un milione di dollari e se lo ficca nel naso. Io mi ficco il mio nell’orecchio”.
Zappa da grande schermo
La musica riempiva, forse anche in maniera ossessiva e totalizzante la sua vita, ma non era l’unica passione: “Di solito trascorro circa 10/14 ore in studio, sette giorni su sette prima dei live. L’unica interruzione che considererei possibile sarebbe concentrarmi al cento per cento su un film”. Non è un caso che tantissima musica di Zappa suona magnificamente cinematografica: rivedersi, per credere, il folle 200 Motels, il film del 1971 diretto da Tony Palmer, in effetti un viaggio nello Zappa-Verso: protagonista era nientemeno che Ringo Starr nella parte di Larry “il nano”, l’alter ego sullo schermo dello stesso Frank. Una specie di surreale esperimento cinematografico volto ad esplorare gli intrecci tra rock e classica in uno pseudo-documentare – oltre alle Mothers era coinvolta anche la Royal Philharmonic Orchestra – sulle sulle groupies e lo stile di vita rock and roll.
Zappa visse gli anni Settanta della disco music e del rock progressivo (pezzi satirici a parte, of course), ma non fece né l’uno né l’altro pur suonando, lui e le sue funamboliche band, meglio di qualsiasi altro gruppo prog o disco-funk in circolazione. Non è un caso che i suoi dischi rimangano tutt’oggi cristallizzati in un eterno presente che non ha eguali, la maggior parte di loro in-databili. Potrebbe essere musica aliena, concepita in qualche altra galassia e spedita sulla terra per vedere l’effetto che fa (emblematiche, citazioniste, leggendarie le copertine dei dischi, a cominciare da quella disegnata dal “nostro” Tanino Liberatore). Ma dicevamo, il cinema… Zappa lo cita in vari suoi brani, che a volte risuonano dei western all’italiana, altre volte della maestosità di certi peplum.
Colonne sonore per western low-cost
Aveva incontrato il cinema fin dal 1962 quando il suo insegnante di liceo, compreso che il ragazzo era disinteressato alle faccende puramente adolescenziali, gli fece ottenere un contratto per scrivere la colonna sonora di un western a basso costo, e poi tornerà più volte nel corso della sua vita, innanzitutto nelle regie di vari lungometraggi e video musicali. La tecnica cinematografica del montaggio diverrà poi la sua tecnica musicale: da un lato la necessità di improvvisare ogni singolo assolo, dall’altro la mania di rimontare brani registrati con pezzi da studio di varie provenienze fino a creare dei prodigiosi Frankenstein musicali.
Morì troppo giovane, nel dicembre del 1993 a soli 52 anni, pochi anni dopo aver appeso, nel 1988, la chitarra al chiodo. Cosa avrebbe potuto realizzare negli anni successivi, osservando la musica dei Novanta o quella del nuovo secolo strapieno di allettanti nuove tecnologie non lo sapremo mai e in fin dei conti, come lui stesso canta nel suo Joe’s Garage: “Ultimately, who gives a fuck anyway?”.
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