Dieci anni fa se ne andava un poeta. Lou Reed la poesia l’ha amata e frequentata fin da giovane, ben prima di immergersi nelle notti bohémien della New York degli anni Sessanta in cui formò i Velvet Underground. Da ragazzo soffriva di attacchi di panico, ma aveva trovato nella letteratura degli anni Cinquanta, quella della Beat Generation, una via di fuga.
La strada che il giovane Lou avrebbe seguito era quella tracciata da Kerouac, da Burroughs, ma anche da Hubert Selby (l’atmosfera di Ultima fermata a Brooklyn viene citata da Reed nel testo di Sister Ray) e poi, negli anni universitari, da Delmore Schwartz, il cosiddetto Rimbaud americano amato anche da Saul Bellow, un personaggio all’indice, perfetto per chi avrebbe cantato la necessità di “camminare sul lato selvaggio della strada” (Walk on the Wild Side).
Dopo Dylan, oltre Dylan
E difatti la poesia di Lou era fuori dal comune: distorta, disturbante, come ebbe a dire un entusiasta David Bowie: “Pensavo che Lou stesse facendo cose che erano inevitabilmente giuste sia per i tempi che per la direzione che la musica stava prendendo. Una di queste era l’uso della cacofonia come rumore di fondo e per creare un’atmosfera che credo fosse sconosciuta nel rock”. Se Dylan aveva portato con successo la poesia nella musica popolare, Lou Reed aveva spinto l’acceleratore un po’ oltre, cominciando a sperimentare senza censura con testi crudi e iper-realisti, parlando senza veli di prostituzione, eroina, travestitismo, orgie, omosessualità.
Cosa erano le sue canzoni se non conturbanti affreschi letterari di un’America marginale? Waiting for the Man, la giornata di uno studente con 26 dollari in mano alla ricerca della sua dose, con il testo che procede come una telecamera in soggettiva che si sposta nelle strade di Harlem alla ricerca del proprio uomo, lo spacciatore. Sunday Morning la descrizione della paranoia, Coney Island l’omaggio ad un lembo fermo nel tempo della sua New York ma anche a Rachel Humphreys, la sua musa trans, Perfect Day l’accorgersi di quanto di meraviglioso possa esserci in azioni così semplici e scontate: una passeggiata nel parco, una gita allo zoo, la visione di un film e poi il ritorno a casa.
Pionieri di velluto
All’università aveva incontrato John Cale, giovane musicista d’avanguardia allievo di La Monte Young. I due nel nel 1964 avevano fondato i Velvet Underground, subito intercettati da Andy Warhol e invitati alla sua corte come membri onorari della Factory, dove poco dopo Lou avrebbe giocato a fare la prima donna spodestando la collega (ed ex amante) Nico.
Erano tossici, erano ai margini sia della società che del music business tanto che quasi nessuno comprò il loro album d’esordio e tantomeno i successivi: “il primo album dei Velvet Underground vendette solo diecimila copie ma tutti coloro in quali lo comprarono poi formarono una band” (disse, forse, Brian Eno). Come a dire che il pubblico non li comprese (se non molti anni dopo), ma i musicisti e chi “ci capiva” di musica sapeva che Lou e i suoi Velvet Underground avevano anticipato il punk, la new wave, la musica industriale e che da lì in poi niente nel rock sarebbe stato lo stesso.
Lou Reed, Bowie e Simpson
E’ del 1970 l’inizio della carriera solista, che si illumina col secondo disco Transformer del 1972 prodotto proprio da David Bowie, l’amico-amante (forse per davvero, forse per esigenze sceniche) dove brilla anche la ballata “digeribile” da un vasto pubblico, quella Perfect Day (che molti anni dopo rivivrà una seconda volta grazie alla colonna sonora del film culto Trainspotting).
E poi il concept album Berlin (1973) e il capolavoro New York (1989), tra i tanti picchi della sua carriera più matura, quando già aveva smesso i panni dell’indolente poeta maledetto e stava cominciando a sperimentare una nuova vita, anche a fianco di Laurie Anderson, artista colta e appassionata.
Insieme – parola di Lou Reed – passavano le giornate stravaccati sul divano a guardare i Simpsons e mangiare pop-corn. Cosa smentita dalla diretta interessata: “Lou era uno scrittore – ci ha detto recentemente Laurie Anderson – dunque adorava inventarsi un sacco di storie. Credo che ci sarà capitato forse per mezzo secondo in 21 anni di vedere i Simpsons. Però nella vita normale – ecco, quello è vero – vedevamo gli amici, facevamo lunghe camminate col nostro cane per le strade della città, suonavamo, insieme o separati. Normali, sì, altrimenti come?”. Normali come uno struggente giorno perfetto.
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