Shaden Gardood era orginaria del Kordofan meridionale, al confine fra il Sudan e il Sud Sudan: una terra lontanissima dal mare, arida, abitata da cristiani, musulmani e indigeni delle montagne Nuba. Da chi vuole rimanere in Sudan e da chi invece si sente parte del Sud Sudan e vorrebbe passare dall’altra parte. Una regione, insomma, attraversata da guerre civili: quella lunga, dal 1983 al 2005, e poi quelle più brevi, nel 2009, nel 2010, nel 2011.
Shaden veniva da lì, era nata nel 1986 e aveva visto più guerra che pace nella sua vita. A vederla nelle foto o nei video, con gli occhi liberi, intensi e profondi, un sorriso disarmante e la voce potente, determinata ed emotiva insieme, viene da chiedersi: ma come fa?
Pochi giorni fa, il 12 maggio, l’ha raggiunta un colpo di mortaio e non è sopravvissuta. Era finita in mezzo ad una sparatoria tra fazione opposte.
Pace, diritti e giustizia
Aveva 37 anni, un figlio, una sorella, una madre ed era una cantante. Le sue canzoni parlavano soprattutto di pace o si scagliavano contro la guerra e lei era amata per i suoi testi e per la sua voce, per la musica e per l’attivismo. I suoi video e post sui social erano molto seguiti in Sudan ma anche dai sudanesi residenti all’estero: lei era un buon ponte per restare attaccati al mondo che avevano lasciato. Parlava di diritti umani, giustizia sociale e minoranze, in particolare la comunità nomade al-Bagara del Kordofan meridionale. Studiava anche come ricercatrice, concentrandosi soprattutto le melodie al-Bagara e poi la tradizione delle donne Hakamat, poetesse e cantastorie.
Nelle sue canzoni faceva incontrare tutti questi mondi, mescolando poesia e ritmi, ispiratosi alla cultura delle tribù Baggara del Kordofan e del Darfur, usando il dialetto locale, recuperando la tradizione delle donne hakamat, nota per promuovere il dialogo, la comprensione e la coesistenza pacifica.
Al centro dei suoi discorsi, c’erano la guerra e la pace. Interveniva nel dibattito pubblico come voce di spicco nei media sudanesi e come scrittrice. Riusciva – raccontano in tanti fra articoli e post – a entrare in contatto con il suo pubblico e ci riusciva, sembra, proprio perché usava la musica per parlare di politica.
Non uccidere il tuo fratello
Nella sua canzone Brother, Don’t Kill Brother esprime la necessità che tutti i sudanesi convivano pacificamente. Fa venire in mente la Guerra di Piero di Fabrizio De Andrè quando dice: “Aveva il tuo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore”. E c’erano suoi fan fra tutte le divise possibili. Scrive Arab News che “era amata da tutti i sudanesi del Kordofan e del Darfur, indipendentemente dall’età”.
Viveva a Omdurman, un’altra città costantemente schiacciata dai conflitti: nel 2008 era stata teatro di una battaglia fra i ribelli del Darfur e le forze governative sudanesi e adesso, dal 15 aprile, si trova in mezzo agli scontri tra Forze armate sudanesi (SAF) e il gruppo paramilitare delle Forze di Rapido Supporto (RSF): due generali, due eserciti, diversi interessi fra miniere d’oro, interessi occidentali, basi militari russe. Nel Shaden 2010 era anche rimasta ferita durante i combattimenti tra il SAF e le forze di Malik Aggar ad Al-Damazin, nel sud-est del Paese.
Intrappolata con il figlio
A Omdurman abitava nel quartiere Al-Hashmab, proprio accanto al palazzo della radio e televisione nazionale, una zona presa di mira fin dal primo giorno del conflitto. Si era dovuta rinchiudere in casa, con il figlio Hamoudy. Guardava la guerra dalla finestra e la raccontava sui social: “Siamo intrappolati nelle nostre case da 25 giorni… abbiamo fame e un’immensa paura, ma siamo pieni di etica e valori”.
Il 12 maggio era la vigilia di un ennesimo accordo di tregua fra le parti, l’ennesimo non rispettato. Circola un video in cui dice al figlio di allontanarsi da porte e finestre. Sanno che potrebbero morire a breve, lei gli raccomanda di indossare con i suoi vestiti migliori. L’ondata di rabbia che ha seguito la sua morte, avvenuta probabilmente per caso, sotto i fuochi incrociati dei due eserciti, ha spinto alcuni sudanesi a chiedersi se non sia invece stata assassinata di proposito, per le sue critiche sui social al SAF.
Il coraggio dell’arte in trincea
Sono 700 i civili morti in Sudan in queste settimane, migliaia i feriti. Il 3 maggio a Karthoum era stata colpita da un proiettile anche Asia Abdelmajid, prima donna sudanese a essersi data al teatro: aveva ottant’anni e nel corso della sua vita aveva fondato il primo gruppo di arti popolari del paese nel 1965 e aveva collaborato con diversi festival in Sudan e all’estero.
Esistenze coraggiosissime in quelle condizioni di eterno conflitto, quasi la guerra fosse la normalità e la pace un’eccezione. In quella guerra perenne forse è difficile, o anche impossibile, fare arte senza esporsi, senza fare attivismo, senza parlare della realtà o provare a immaginarne di migliori. E infatti secondo molti sudanesi le parole e la musica di Shaden – denunciando il presente e proponendo futuri diversi – hanno avuto un impatto imprescindibile sul movimento di protesta che ha portato al rovesciamento del dittatore di lunga data Omar Al-Bashir nel 2019. Forse la maggior soddisfazione che un’artista e attivista possa desiderare.
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