Nel 1960, l’infrastruttura pericolante del sistema degli Studios hollywoodiani fu scossa da un “doppio sciopero” lanciato da due categorie essenziali della sua forza lavoro: gli sceneggiatori e gli attori. Poiché nessuna delle due figure professionali era ancora considerata sulla soglia dell’obsolescenza, la direzione fu costretta a negoziare con i lavoratori. Entrambe le parti erano incentivate a trovare un accordo che permettesse di condividere i profitti e di tenere aperte le produzioni. Alla fine – e questa potrebbe essere la triste differenza tra il 1960 e il 2023 – ognuno riuscì a vedere l’altro come un collaboratore, piuttosto che un nemico mortale.
Il motivo del duplice sciopero della Writers Guild of America e della Screen Actors Guild era, ovviamente, la televisione, la minaccia tecnologica che aveva trasformato il settore, ma non le clausole dei contratti di lavoro. Entrambe le categorie di artisti volevano una quota maggiore dei ricavi dei lungometraggi post-1948 venduti alla televisione e un accordo solido per la ripartizione dei profitti in futuro. Altri punti di discussione erano i benefit sanitari e le condizioni di lavoro.
La questione principale per entrambi i sindacati era quella dei diritti residuali, ovvero i compensi per il lavoro svolto e riutilizzato su pellicola e via etere. “Residuali”, dato che viene da “residuo”, fa pensare agli “avanzi”, ma nel 1960 i diritti residuali sembravano più la portata principale. Ancor più dei cataloghi di lungometraggi all’asta, la vendita di sitcom filmate come Lucy ed io, The Danny Thomas Show e Papà ha ragione stavano già generando milioni di dollari di entrate per i produttori-proprietari; i creatori e i performer volevano una parte equa di questi guadagni.
Gli inizi dei diritti residuali
La storia dei diritti residuali nell’industria dell’intrattenimento risale all’inizio dell’era della riproduzione meccanica, con l’introduzione del fonografo come punto di flesso. A partire dal 1910 circa, i cantanti ricevevano royalties in base alle vendite dei dischi. La radio e i juke box complicarono la struttura dei compensi, ma l’American Federation of Musicians – probabilmente il più temuto tra i sindacati degli artisti, noto per le sue tattiche aggressive – era pronta a dare battaglia a quelli che chiamava “i mostri meccanici”.
Già nel 1932, aveva ottenuto accordi sui diritti residuali per il lavoro registrato di cantanti e musicisti trasmesso via etere. Con l’avvento della televisione, un’eventualità non prevista nei contratti originali degli artisti che creavano e apparivano nei lungometraggi, nei serial e nei cortometraggi che costituivano gran parte dei contenuti di questo mezzo alla fine degli anni Quaranta e Cinquanta, il calcolo dei pagamenti divenne ancora più complesso.
A meno che gli artisti non fossero stati abbastanza intelligenti da negoziare un accordo di condivisione dei profitti all’epoca, di solito si vedevano preclusi ulteriori introiti. Abbott e Costello (noti in Italia come Gianni e Pinotto, ndr), che non erano degli sprovveduti, si erano assicurati una parte dei profitti per le riedizioni cinematografiche e i diritti televisivi dei loro film Universal e avevano fatto una barca di soldi. Al contrario, The Three Stooges (in Italia: i Tre Marmittoni, ndr) non ricevettero nemmeno un centesimo dai loro cortometraggi per la Columbia, realizzati negli anni Trenta e trasmessi a rotazione in quasi tutte le zone di copertura televisiva d’America.
Il “doppio sciopero”
La WGA e la SAG cercavano una formula di diritti residuali che fornisse standardizzazione e garanzie ai creatori e ai performer. I talenti, dichiarò nel 1960 un portavoce dell’American Federation of Television and Radio Artists, hanno “il diritto di ricevere una parte di tutti questi soldi che girano. È così semplice. Dove sarebbero tutti senza il talento?”.
La WGA lanciò per prima il guanto di sfida. Il 16 gennaio 1960, citando “un atteggiamento costantemente irremovibile da parte dei produttori”, il presidente della WGA Curtis Kenyon, ex-sceneggiatore ora impegnato in televisione, indisse uno sciopero “su due fronti” contro la produzione cinematografica e televisiva. Tra le richieste: diritti residuali “in eterno” e non solo per sei repliche; una parte dei profitti derivanti dalla distribuzione all’estero; pratiche di lavoro più eque, in particolare per quanto riguardava le sceneggiature speculative o “spec script”.
Avendo accumulato una scorta di sceneggiature, i produttori pensarono di poter prendere tempo e aspettare che gli sceneggiatori finissero lo sciopero. Trentanove copioni di The Many Loves of Dobie Gillis erano già conclusi e lo show rimase in produzione.
Gli attori erano un bene più visibile e prezioso. “Lo sciopero della Writers Guild nel fine settimana non preoccupa i produttori, ma uno sciopero degli attori a causa del rifiuto degli Studios di soddisfare le loro richieste sarebbe un colpo mortale per il settore”, osservava Billy Wilkerson, editore di The Hollywood Reporter, che di solito non simpatizzava per la causa dei lavoratori.
Reagan, il sindacalista
Gli attori avevano un formidabile combattente al loro fianco nella persona del presidente della SAG Ronald Reagan, l’ex star della Warner Bros. che era passato alla televisione e, dal 1953, era stato conduttore della serie antologica General Electric Theater della CBS. Come leader della SAG dal 1947 al 1952, quando Hollywood si trovò nel mirino della crociata anticomunista del dopoguerra, Reagan aveva guidato con successo il sindacato nel suo periodo più rischioso. Nel 1947, aveva difeso in modo eloquente il patriottismo dell’industria cinematografica davanti alla Commissione sulle attività antiamericane della Camera, ricevendo alcune delle migliori recensioni della sua carriera.
Oggi, le azioni di Reagan all’epoca della lista nera sono diventate più controverse (diamine, tutto ciò che riguarda quell’epoca lo è), in particolare il suo ruolo di informatore ufficioso dell’FBI e la sua partecipazione alle procedure di “clearance”, in base alle quali gli attori accusati di cattiva condotta ideologica dovevano spiegare o ritrattare davanti a una camera stellata di funzionari dell’industria. Tuttavia, i suoi colleghi ne conservavano una buona opinione, tanto che nel 1959 lo elessero per un sesto mandato come presidente della SAG, un evento senza precedenti. Prevedendo l’imminente battaglia con gli Studios, volevano un giocatore fidato ed esperto in campo a rappresentare i loro interessi. “Ronald Reagan sta recitando la sua parte migliore per il minor numero di applausi”, si diceva in città.
Preparazione notturna
La SAG procedette con cautela. La notte del 17 febbraio 1960, a casa di Tony Curtis e Janet Leigh, 100 membri si riunirono per autorizzare uno sciopero, pensando che la minaccia di un’astensione dal lavoro li avrebbe messi in una posizione migliore per la contrattazione.
Tuttavia, l’Association of Motion Picture Producers, rappresentata dal vicepresidente esecutivo Charles Boren, si rifiutò di accettare le richieste degli attori. “Nessun pagamento doppio per lo stesso lavoro”: così descrisse la loro posizione Bob Chandler di Variety. “Niente di niente, dicevano, e non ne discuteremo”.
Lo sciopero degli attori degli anni Sessanta
Il 7 marzo, la SAG indisse lo sciopero. Fuori scena, si scatenò immediatamente una serie di tese trattative contrattuali. Al fianco di Reagan, a fare il lavoro pesante, c’era John L. Dales, il saggio consigliere e segretario esecutivo della SAG. Dales era l’uomo dei dettagli che controllava il linguaggio dei contratti riga per riga. A differenza dello sciopero della WGA, che riguardava sia la produzione cinematografica che quella televisiva, lo sciopero della SAG riguardava solo la produzione cinematografica.
La lavorazione di otto lungometraggi, tra cui La nave più scassata… dell’esercito e Venere in visone, si fermò.
La decisione di scioperare non ebbe l’appoggio unanime della base della SAG. “Gli attori non sono moralmente giustificati a scioperare e a causare il licenziamento dei lavoratori degli studios”, dichiarò l’attore Glenn Ford, a nome di un gruppo di 40 dissidenti. “Se non fosse per i ragazzi delle troupe, non saremmo attori”. Tony Curtis, rifacendosi alle sue radici del Bronx, rispose: “Se Glenn Ford ritiene che il nostro sindacato non abbia fatto un buon lavoro, che si iscriva al sindacato dei macellai”.
Comunisti che non volevano distruggere il capitale
La giornalista di gossip e membro della SAG Hedda Hopper (che appariva di frequente nei film e in tv nel ruolo di sé stessa) si incaricò di resuscitare lo spettro del passato di Hollywood: “Non è una strana coincidenza che, proprio mentre alcuni dei produttori più liberal assumono sceneggiatori comunisti, sia saltato fuori questo sciopero?”.
Hopper si riferiva ai recenti annunci del produttore-regista Otto Preminger e del produttore-star Kirk Douglas, secondo i quali lo sceneggiatore Dalton Trumbo, il più famigerato membro della lista nera dei Dieci di Hollywood, sarebbe stato assunto con il proprio nome rispettivamente per Exodus (1961) e Spartacus (1960). Come interpretazione degli umori del momento, non avrebbe potuto sbagliare di più. Gli sceneggiatori e gli attori non intendevano distruggere la macchina capitalistica; volevano solo una fetta più grande della torta.
L’assemblea sindacale agli Oscar
La sera del 4 aprile, nel bel mezzo delle trattative per lo sciopero, entrambe le parti si fermarono per assistere alla 32a edizione degli Oscar al Pantages Theatre. Reagan aveva sperato di sorprendere il pubblico con l’annuncio della risoluzione dello sciopero, ma le trattative rimasero in stallo. Il conduttore della serata, ovviamente, era Bob Hope, che conduceva gli Oscar per la nona volta. “Benvenuti alla riunione di sciopero più elegante di Hollywood”, ha detto. “Non avrei mai pensato di vivere fino al giorno in cui Ronald Reagan sarebbe stato l’unico attore a lavorare”.
Hope ricevette una grande ovazione quando, con sua grande sorpresa, gli fu consegnato il Premio umanitario Jean Hersholt. “Non so cosa dire”, disse, sinceramente commosso. Poi pronunciò una frase che deve aver fatto piacere alla WGA: “Non ho autori per questo tipo di lavoro”.
Un accordo, finalmente
L’8 aprile, la SAG e l’Association of Motion Picture Producers giunsero a un accordo. Il sindacato rinunciò alle richieste di diritti residuali per i film del periodo 1948-60 e accettò invece un ingente versamento al fondo pensionistico della SAG.
Per i film realizzati dopo il 1960, tuttavia, gli attori avrebbero ricevuto una percentuale degli incassi, al netto delle detrazioni per le spese di distribuzione. Vennero anche aumentati i contributi dei produttori ai fondi sanitari e previdenziali del sindacato. Reagan, già allora avverso alle tasse, fece notare che i pagamenti delle pensioni, a differenza dei diritti residuali, erano esenti da imposte, mentre i diritti residuali erano tassabili come reddito lordo.
Alla domanda su come si sentisse alla fine dei negoziati, Reagan rispose: “Molto felice”. Boren dell’AMPP concordò. “Davvero molto felice”. Nel 1981, in uno degli atti più significativi della sua presidenza, Reagan licenziò più di 11.000 controllori di volo, che scioperavano sfidando un ordine del tribunale. Ricordò agli americani di essere un sindacalista che aveva guidato la Screen Actors Guild in uno sciopero, ma uno sciopero legale).
Il rientro dello sciopero degli attori
Il 18 aprile 1960, in una riunione di massa all’Hollywood Palladium, più di 2.000 membri votarono a maggioranza schiacciante per l’approvazione dell’accordo. Una delle poche voci che si levarono in opposizione fu quella di Hopper, che continuava a fare da esca per i comunisti e da intermediaria per i produttori. La folla la fischiò.
La SAG e i produttori rilasciarono poi una dichiarazione congiunta di riconciliazione: l’accordo “è giusto ed equo e porterà a relazioni stabili tra lavoratori e dirigenti del settore”. Ancor prima che l’inchiostro si asciugasse, il produttore Jerry Wald aveva ripreso la produzione di Facciamo l’amore.
Con gli attori di nuovo al lavoro, gli sceneggiatori avevano meno influenza. “Ora siete voi attori a gestire il business”, ammise uno sceneggiatore depresso davanti a un collega della SAG. I leader della WGA pensarono che la strategia migliore fosse quella di prendere a modello l’accordo della SAG. A differenza della SAG, però, al tavolo degli sceneggiatori non c’erano negoziatori esperti e le trattative si arenarono.
Il punto debole degli sceneggiatori
La stampa specializzata aveva un’opinione comune: la WGA non aveva grandi negoziatori. Secondo loro il sindacato degli sceneggiatori era “penalizzato dal peggior programma di pubbliche relazioni nella storia delle controversie manageriali”. E che i loro negoziatori erano “dilettanti”, che “per quanto si impegnino, sono agnelli in mezzo ai lupi al tavolo delle trattative”.
Solo quando la WGA inviò il proprio lupo, Evelyn Burkey, segretaria esecutiva della sezione East Coast, gli sceneggiatori ottennero un risultato. Conclusero l’accordo prima con l’Alliance of Television Film Producers e l’Association of Motion Picture Producers (19 giugno). E poi con i tre principali network (25 giugno).
L’accordo WGA stabilì una formula per i diritti residuali legata agli incassi mondiali: oltre al compenso originale, il 40% dello stesso sarebbe stato distribuito su cinque repliche nazionali, mentre il 4% dell’incasso assoluto sarebbe stato versato in eterno. Entrambe le parti convennero che la trattativa “segna una pietra miliare nella storia dei rapporti tra lavoratori e dirigenti”, assicurando “la perpetuazione del nostro settore” e “maggiori entrate” per tutti gli interessati.
Una volta passata la tempesta, l’editorialista di THR Mike Connolly espresse il sentimento prevalente in città. “Grazie a Dio è finita”, disse. “Andiamo a lavorare”.
Traduzione di Nadia Cazzaniga
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma