La distanza aumenta, non è mai un bel segnale. La distanza fra il cosiddetto paese reale, che saremmo noi – noi nella vita di tutti i giorni, i pensieri che ci occupano la mente, gli incastri da risolvere, i desideri, le paure – e la rappresentazione del Paese che offre la politica. La offre, questa immagine deforme, soprattutto attraverso i social network e i talk show, le pillole e i frammenti che ne circolano in rete. Perché la politica è da molto tempo in primo luogo spettacolo, i suoi protagonisti parlano direttamente ai cittadini attraverso i loro profili, le conferenze stampa si possono fare anche senza giornalisti – ad uso di telecamera, fingendo che ci siano.
Ma c’è un’altra distanza che aumenta, questa davvero interessante e non ancora del tutto messa a fuoco. E’ quella fra il simulacro di Paese, di mondo, che chi governa mette in scena nei suoi monologhi e il racconto della realtà che ci offre la proposta cinematografica: film e serie tv. Qui la distanza è abissale. Abbiamo vissuto nei giorni scorsi una rappresentazione plastica di questo abisso: ovunque migliaia, milioni di persone sono scese in strada per i molti Pride. Canti, sfilate, rivendicazioni scritte a colori sui cartelli, molta gioia indubitabile. Per contro, dall’altro lato, discussioni vaghe e fumose, contrite, sui si può/non si può: il punto in cui qualcuno stabilisce che la libera scelta di ciascuno è normata dalle regole dettate da qualcuno. E’ sempre questo, il problema: riuscire ad immaginare che nessuno dovrebbe impedire a nessun altro di fare della sua vita ciò che vuole, naturalmente nel rispetto della vita e delle scelte altrui. Un concetto così semplice, eppure apparentemente insormontabile. Qui irrompe la rappresentazione che il cinema ci offre del mondo in cui viviamo. Abbiamo scritto moltissimo, in questi giorni, su come film e serie trattino i temi legati ai diritti: con l’evidenza della vita vera, con riguardo a ciò che le persone sono, nel mondo.
Ora. Poiché come tutti sappiamo i cittadini, soprattutto i più giovani, acquisiscono conoscenza e consapevolezza quasi esclusivamente attraverso le immagini in movimento, ormai (leggere un libro, un giornale è l’eccezione. Discutere di una puntata della serie del momento la norma) è cruciale, mi sembra, fare moltissima attenzione ai temi di cui la produzione cinematografica tratta: di cosa parla, come ne parla. Per ragioni anche commerciali, oltre che artistiche, il cinema ambisce a essere qualcosa in cui chi guarda si possa riconoscere: anche in termini ispirazionali, intendo. Non solo come fotografia della realtà ma come indicazione della rotta che la realtà può prendere. E’ dunque questa la distanza da osservare, di cui prendere misura: il modo in cui il cinema (in senso lato) parla di diritti, la potenza con cui torna nella vita di tutti, entra nel lessico, nel pensiero, nell’idea di mondo e la povertà, invece, con cui il dibattito pubblico continua a girare in tondo su tre o quattro concetti consunti, inabitati, estranei all’esperienza condivisa. Dal fine settimana dei Pride torniamo al lavoro di ogni giorno con questa convinzione, rafforzata. E’ l’industria cinematografica, oggi, il più potente architetto di cittadinanza. Il mago che legge e a volte cura i segreti della psiche, che indica dove hanno casa i comportamenti individuali e collettivi, o dove potrebbero. Sono gli artisti i modelli universalmente riconosciuti, sono cineasti e attori coloro che costruiscono case dove ciascuno può andare ad abitare. Più che la distanza fra la realtà e la politica oggi quel che sarebbe saggio misurare è la distanza, ogni minuto crescente, fra il cinema e la politica. E’ lì che si sente il polso, il battito. E’ lì che quando il battito manca qualcosa di fondamentale ha smesso di esistere: la corrispondenza fra la propria esperienza e lo spettacolo di chi governa le cose, in un teatro sempre più povero di pubblico.
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