Dopo aver allegramente preso in giro personaggi come Saddam Hussein, Iosif Stalin e Adolf Hitler in una serie tv da sei episodi, riservare lo stesso trattamento ai leader di una setta o di un culto è facile come farsi una passeggiata. E tuttavia, dopo aver usato tutta l’ironia possibile per sbeffeggiare Saddam Hussein, Joseph Stalin e Adolf Hitler, può capitare che le armi del sarcasmo risultino meno affilate, quando il bersaglio dell’attacco sono coloriti capipopolo (e i rispettivi seguaci), già oggetto di scherno, in alcuni casi, da più di una generazione.
Queste due affermazioni sono rispettivamente la forza e la debolezza principali della nuova commedia-documentario in sei episodi di Netflix, Come diventare leader di una setta – sequel per tono, stile e struttura di Come diventare tiranni, del 2021.
Forte di un collaudato team di produzione, guidato da Jake Laufer, Jonas Bell Pasht e Jonah Bekhor, e del prezioso supporto del narratore e produttore esecutivo Peter Dinklage, Come diventare leader di una setta si attiene strettamente alla formula vincente della serie sui tiranni: una voce fuori campo, in seconda persona, istruisce ironicamente gli spettatori sulle strategie migliori per raggiungere i propri obiettivi, avvalendosi di interviste a esperti e analisti. In mezzo, filmati d’archivio e spassosi video di repertorio arricchiti da animazioni realizzate da 6 Point Harness (lo studio di Los Angeles specializzato in prodotti televisivi, ndt). I “consigli strategici” sono tratti da un manuale immaginario ed espressi in termini di tattiche come “Semplifica il dogma”, “Costruisci il tuo Eden” e “Monopolizza le informazioni”.
È una formula molto efficace, che permette ai creatori di comunicare informazioni autentiche e di proporre interessanti approfondimenti su personaggi e situazioni (oltre a fare della buona ironia con osservazioni del tipo: “Non si nasce leader di un culto. È un lungo processo e il modo con cui scegli di presentarti al mondo può fare la differenza”, dice allusivamente Dinklage).
Gli “approfondimenti” sono particolarmente riusciti: i produttori hanno scelto leader di culti molto noti, da Charles Manson a Jim Jones fino al duo dietro al culto di Heaven’s Gate, ma le puntate più interessanti sono quelle dedicate a Shoko Asahara (del culto apocalittico Aum Shinrikyo) e Jaime Gomez (Buddhafield), cui in passato sono stati dedicati due – ben documentati – lungometraggi. Vengono citati qua e là anche altri culti, alcuni piccoli e più oscuri, altri internazionali: varrebbe quasi la pena di fare una seconda stagione per indagare alcuni aspetti cui la serie accenna soltanto.
È anche vero, tuttavia, che realizzare un episodio da 30 minuti su un personaggio che è stato già raccontato in film e documentari da tre ore, e utilizzare un terzo del tempo a disposizione per fare battute, espone la serie al rischio di raccontare in modo superficiale il fenomeno. Che si tratti di Ivor Davis su Manson, Jeff Guinn su Jones o Benjamin Zeller sulla coppia di Heaven’s Gate, gli episodi riducono di molto la portata di alcuni interventi molto competenti sull’argomento.
Costretta a limitare la profondità della propria indagine, la serie non può dilungarsi sulle conseguenze delle azioni delle sette. Il che giustifica, o almeno spiega, come mai Come diventare leader di una setta tratti in maniera estremamente asettica gli omicidi della Manson Family, i suicidi/omicidi del Peoples Temple in Guyana e l’attentato dell’Aum Shinrikyo nella metropolitana di Tokyo. È possibile ridere di una sequenza animata che ci racconta il giovane Charlie Manson alle prese con le scuole elementari, o eccitarsi per l’impeccabile recitazione di Dinklage, a patto che non ci venga chiesto di riflettere sui crimini efferati commessi dai leader di quelle sette. Non è chiaro se gli sceneggiatori abbiano sfruttato la ricchezza del materiale per spingere sul pedale dell’umorismo, o se l’abbiano fatto solo per evitare di raccontare altro: Come diventare leader di una setta finisce per essere più leggero, e meno provocatorio, di Come diventare tiranni. Da segnalare anche un certo cattivo gusto nel voler criticare i media e il pubblico per l’interesse morboso nei confronti dei culti, citando episodi andati in onda su piattaforme streaming concorrenti che – con quel tipo di storie – hanno fatto soldi a palate.
Pur contando su una gran quantità di ottimo materiale, e sulla qualità garantita dalla presenza di Dinklage, al termine dei cinque episodi Come diventare leader di una setta resta a corto di idee: il sesto episodio, che dovrebbe chiudere la serie, non è decisamente riuscito. Gli sceneggiatori avevano l’opportunità di riflettere sulla nostra epoca come terreno fertile per i culti e i loro leader, e avrebbero potuto chiudere in modo stimolante e provocatorio l’intera operazione. Invece scelgono di concludere la serie con un episodio noioso e insignificante su Sun Myung Moon e la Chiesa dell’Unificazione. Una conclusione così debole da suggerire l’idea che sia frutto di un compromesso, dopo che gli avvocati hanno avvertito i creatori della serie che dedicare un episodio al culto di L. Ron Hubbard avrebbe avuto conseguenze legali, e che farne uno su Donald Trump avrebbe portato a un’assordante rivolta su Truth Social.
A deludere ancora di più è la decisione di mandare in onda questo tipo di prodotto senza accompagnarlo ad alcun invito all’azione. C’è solo un piccolo riferimento a un sito web che fa parte di una rete di sensibilizzazione sulle sette: un’informazione di cui si può fare a meno quando si parla di tiranni, perché non c’è un numero verde da chiamare se un amico o una persona cara finisce sotto la giurisdizione di un politico autoritario, ma con i culti il discorso è diverso. Le storie delle vittime sono più semplici. E personali.
Se il senso di divertita superficialità permette dunque ai produttori di farla franca, prendendosi gioco di organizzazioni che hanno ucciso violentemente persone, o contribuito alla morte di migliaia di altre, lo stesso atteggiamento renderebbe come minimo indispensabile un accenno al modo con cui ci si può difendere. Come diventare leader di una setta riesce a rendere divertente un argomento drammatico, certo. Ma il sospetto è sia uno di quei prodotti largamente in debito col suo pubblico.
(Traduzione di Pietro Cecioni)
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