No spoiler: non finirà bene. Lo si dice chiaramente, all’inizio. Quando un gruppo di persone si riunisce intorno a un falò bruciando libri al grido di “morte alla cultura”, storicamente – con un certo grado di sicurezza – siamo di fronte a un fallimento. Perché questo è, in sostanza, la storia (vera) di The Anarchists – Anarchia ad Acapulco, docuserie HBO di Todd Schramke in sei episodi – dal primo maggio alle 21:15 in esclusiva su Sky Documentaries e in streaming su Now – che racconta l’origine e l’epilogo di un esperimento sociale iniziato in goliardia e finito in dramma.
Anarchia, la parola “tossica”
Tutto nasce nel 2015, quando l’imprenditore milionario, blogger e pioniere dei BitCoin Jeff Berwick, reduce dalla chiusura della sua società, decide di fare quel che solo un milionario potrebbe permettersi in una situazione del genere: niente.
Dopo un anno sabbatico in giro per il mondo, durante il quale conosce “le ragazze più belle del pianeta”, si informa su internet e passa più tempo da ubriaco che da sobrio, il canadese Berwick decide di trasferirsi ad Acapulco, in Messico, dove ritiene di poter realizzare il suo nuovo sogno imprenditoriale: un festival dedicato al concetto di anarchia, “una parola tossica fino a quel momento”, interpretata secondo la sua personalissima lettura.
Ovvero anarchia intesa non come movimento votato all’annullamento dello Stato, ma come confusa filosofia edonistica che mette insieme complottismo e qualunquismo, difesa della proprietà privata e odio per le banche (“Gesù era un anarchico che ha reagito con rabbia e violenza alla prepotenza delle banche centrali”, dice), il “radical home schooling” (“La scuola è un trauma”) e la genitorialità pacifica (che censura Babbo Natale), il veganesimo e l’autosufficienza alimentare dell’agorismo, V per Vendetta, le teorie di Ayn Rand e Star Wars. L’idea – siamo a un anno dall’elezione di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti – è un successo.
Anarchapulco, l’anarchia come brand
Nasce così Anarchapulco, l’evento che trasforma l’anarchia in brand e i suoi simboli in franchise (magliette, gadget, un canale YouTube, Anarchast, un quartier generale, Anarchastle, un blog, Steemit) e che finisce per attirare ad Acapulco un’umanità variamente confusa e sperduta. Gli attivisti anarchici Lisa e Nathan Freeman (“Preferirei che i miei figli frequentassero il set di un porno che una scuola”), i fricchettoni Lily Forester e John Galton, in fuga dagli Stati Uniti dopo essere stati fermati con il bagagliaio pieno di marijuana, e Paul, ex soldato in Iraq e Afghanistan, che a bordo di uno scuolabus gira per il paese armato di un fucile e di una buona dose di rabbia.
Fin qui, all’incirca, tutto bene.
Da Anarchapulco a Criptopulco
Ma gli anni passano e il meeting comincia ad attirare altri interessi. Quelli delle società di cripto-valuta e degli investitori di BitCoin, per esempio: la moneta alternativa alle odiate banche fa immediatamente presa nella comunità e gli investimenti si rivelano redditizi. Chi ha scommesso sui BitCoin si ritrova miliardario in una notte, chi non lo ha fatto si mangia le mani. Centotrenta BitCoin valgono 2 milioni e mezzo di dollari, e chi se li è ritrovati in tasca non ha certo intenzione di dividerli con gli altri. Anarchapulco si trasforma in Criptopulco, la conferenza diventa una convention, nel bar del paese viene installato il primo ATM per le criptovalute: ce lo porta, in furgone, l’ex soldato Paul, rubandolo – pare un film dei fratelli Coen – da uno strip club di Chicago. Il malumore cresce e i primi due episodi della serie si interrompono in piena suspance: qualcuno, pare di capire, morirà. Il sogno si è infranto, l’economia vince sull’utopia, l’irrazionalità ha il sopravvento. Nessuna sorpresa: le premesse, del resto, c’erano tutte.
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