Quando è scomparsa Lea Garofalo in Calabria non c’è stato bisogno di spiegazioni. Si chiama “lupara bianca”, “fucile bianco”, uno sparo che non lascia cadaveri. E a dire il vero, nella rappresentazione delle organizzazioni criminali, le donne sono dei fantasmi invisibili anche quando sono ancora vive. Al cinema e in tv ci sono i padrini, le sparatorie spettacolari, i machi che si vendicano a mani nude. Eppure la realtà non regala i colori sgargianti degli interni kitsch delle case mafiose ma un dolore a tinte fredde, che strugge le madri, i figli e le figlie. Come Lea Garofalo, Denise Cosco, Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola.
Sono loro le protagoniste di The Good Mothers, la serie italo-inglese vincitrice del Berlinale Series Award 2023 e candidata ai Critics Choice Awards 2024. “Un progetto nato con una donna”, ha detto a THR Roma la regista Elisa Amoruso. “La produttrice inglese Juliette Howell, di House Film TV, che ha deciso di acquistare i diritti del romanzo-inchiesta di Alex Perry”. Subito dopo la serie è stata appoggiata da Fremantle e Disney UK.
Amoruso è stata co-regista insieme a Julian Jarrold (Becoming Jane, The Crown) nel lavoro che definisce “il più importante, ma anche il più facile della mia carriera finora”. Perché? “Ho conciliato l’urgenza di raccontare questa storia con la naturalezza di girarla: sapevo già come filmare queste donne, dove mettere la macchina da presa, che indicazioni dare alle attrici”. Come se lo avesse fatto da sempre, “perché il punto di vista delle donne oppresse, schiacciate dalle figure maschili nelle loro famiglie, proprio da coloro che dicono di amarle, padri, mariti, fratelli, è una storia così chiara, conosciuta, vissuta collettivamente”.
“Abbiamo bisogno di verità sulle donne di ‘ndrangheta”
Stephen Butchard ha adattato per lo schermo l’omonimo libro di Perry, che raccoglie testimonianze, intercettazioni, dialoghi, dando vita alla serie di 6 episodi che narra le vite di Lea Garofalo (1974-2009), interpretata da Micaela Ramazzotti, Maria Concetta Cacciola (1980-2011) da Simona Di Stefano e Giuseppina Pesce da Valentina Bellé. Queste tre donne sono cresciute all’interno dei potenti e spietati clan della ‘ndrangheta ma hanno fatto la scelta coraggiosa di collaborare con la giustizia diventando testimoni. L’attrice Barbara Chichiarelli interpreta la giovane e brillante pm Anna Colace.
“Dal primo minuto ci è stato chiaro che volevamo raccontare la verità”, dice Amoruso. “Abbiamo scelto di girare la serie in lingua italiana, nei luoghi della Calabria. Volevamo restituire il più possibile la realtà: una criminalità organizzata che solo per finta è locale, perché la ‘ndrangheta è ramificata in tutto il mondo”. Ma il primo minuto di Amoruso è arrivato dopo che il progetto era già nato, “non ero del tutto libera quando mi hanno chiamato per chiedermi se ero disponibile per girare”, racconta. In quel momento era impegnata in altri progetti in Wildside, la controllata di Fremantle, che ha sostenuto la serie. “Ma quando ho ricevuto la sceneggiatura mi è bastato leggere il primo episodio per sentire sulla pelle che a quella storia dovevo lavorarci”.
Tutti avevano le idee chiare. “Abbiamo cercato di cancellare forme e contenuti già visti nelle storie di mafia, così abbiamo eliminato Gomorra, Suburra, I Soprano“. Non ci sono miti ed eroi. “La mafia spettacolare l’abbiamo già vista, quello che ci interessava era lasciare la violenza fuori campo, mostrarla attraverso gli occhi dei figli”. Dei bambini e delle ragazze. “Sul set c’era molto rispetto e responsabilità da parte delle attrici per le vite che stavamo portando con noi, soprattutto nella consapevolezza delle morti di Garofalo e Cacciola”.
The Good Mothers, le buone madri
Quando Alessandra Cerreti entrò a far parte della Procura antimafia della città di Reggio Calabria nel 2010, era convinta che le donne fossero la chiave per svelare il mondo segreto della mafia più potente d’Italia. Il personaggio di Anna Colace è ispirato a lei e ai suoi incontri che fecero della sua intuizione la verità. Non riuscendo a sfidare la narrativa predominante, che vuole gli uomini padroni delle attività criminali, il ruolo delle donne era stato trascurato. Ma nel perimetro informale della famiglia, in questo spazio privato in cui è concesso loro predominare, mentre parte della società rafforza gli schemi patriarcali, partecipano, consigliano, organizzano.
“The Good Mothers, le buone madri, per gli uomini della ‘ndrangheta seduti al tavolo delle decisioni, sono loro, quelle obbediscono e comandano sul retro, nell’ombra, stanno zitte e non tradiscono mentre queste protagoniste rappresentano quelle donne che si ribellano, spesso in nome dei figli”, spiega Amoruso. “Sapevamo che stavamo raccontando qualcosa di universale ma particolare e tragico: tutti viviamo per emanciparci, per costruire la nostra vita”. Le donne della serie invece “hanno dovuto combattere per la loro sopravvivenza, per trovare una via di fuga, lottano contro l’unica possibilità di esistenza che gli è stata insegnata”. Spazzare via le possibilità di scelta di qualcuno significa privarlo della propria vita. “L’ingiustizia, l’umiliazione è qualcosa che il genere femminile conosce bene, la sensazione della sopraffazione, di non avere scelta, osservare chi ti ruba la possibilità di scegliere”, spiega la regista.
L’ingiustizia e l’umiliazione che bruciano
Anche Amoruso ha dovuto dimostrare il doppio, in un ambiente, quello dell’audiovisivo, dominato dagli uomini. “Solo adesso si comincia a parlare di registe donne ma siamo molto poche, anche nell’industria anglosassone e in quella americana”. Un’ingiustizia e un’umiliazione che lei definisce costante subita nel suo lavoro. “Ma chi è? Sarà in grado? Ma sarà capace? Tutte domande che ti senti addosso il primo giorno di set. Allora fai di tutto per dimostrare di essere all’altezza, per conquistarti la fiducia come se qualcuno dovesse concedertela, mostri tutte le tue capacità e conoscenze tecniche”.
Almeno una volta nella vita, ci scommette Amoruso, tutte le donne hanno vissuto una forma di sopraffazione di questo tipo, qualcuna, come le donne di The Good Mothers, una forma di ingiustizia che ha bruciato così tanto da ammazzarle. “Queste donne dovevano parlare a tutti, quindi era molto importante che fossero quanto più reali e vere possibile. Non avevamo in mente l’entertainment, né un linguaggio pop né di spettacolarizzazione”.
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