Costanza Quatriglio alla Berlinale con Il cassetto segreto: la casa mondo, il tempo debito e il corpo della memoria

La regista a Berlino viaggia a ritroso nella storia del padre Giuseppe. “Riportare in vita le sue immagini e parole e metterle al centro di tutto è anche un atto politico”

Di THR ROMA

Costanza Quatriglio, figlia di Giuseppe Quatriglio. Due intellettuali, due artisti: una delle immagini e l’altro della parola – ma è vero anche il contrario – che ci permettono di guardare la realtà, il passato e il presente, il corpo della nostra storia e della nostra società, in controluce, con una chiarezza che in alcuni momenti sa essere annichilente. Quatriglio è una delle migliori registe degli ultimi decenni, non solo in Italia (paese che l’ha capita poco e male), lui un giornalista e un saggista che ha capito più e meglio di altri il senso profondo del raccontare.

Il cassetto segreto è il modo in cui una casa, che li ha ospitati entrambi, diventa protagonista di una riflessione cinematografica, emotiva e intellettuale profondissima, in alcuni momenti squassante per lo spettatore, uno sguardo lucido e potentissimo nell’anima di ognuno di noi, nell’immaginario collettivo, in ciò che vuol dire memoria, storia, immagine. E molto altro. Un’indagine piena di prove, scritte e visive. Una detective che indaga su se stessa.

Il cassetto segreto, selezionato nella sezione forum della Berlinale numero 74, è uno di quei capolavori che hai paura di rovinare semplicemente parlandone, perché la sua forza emotiva ed espressiva, il suo impatto su chi lo guarda è invisibile agli occhi, anzi impossibile da esplicitare completamente, perché spesso cerchiamo di “spiegare ciò che non va spiegato”.
Ma se c’è un tempo debito, come racconta Quatriglio, per fare un film come questo, è un tempo necessario quello da dedicarci per vederlo. E parlarne, discuterne, come facciamo con la regista.

Qual è stato il momento preciso in cui ha capito che avrebbe aperto Il cassetto segreto, che questo film sarebbe nato?

So sempre individuare il momento in cui un film nasce, ma in questo caso no. Normalmente so isolare la scintilla che lo fa partire, ma in questo caso parliamo di un processo che mi ha condotto a realizzarlo senza quasi che lo decidessi. Forse nasce tra il 2010 e il 2011, quando filmo mio padre con i mezzi che ho – una fotocamera e un cellulare -, forse quando entrano in casa bibliotecari e archivisti nel gennaio 2022 e la loro presenza apparentemente neutra crea una mediazione interessante tra me e quel patrimonio di memoria collettiva, oltre che personale. E ho filmato queste persone mentre trattavano, anzi come dicono loro “aggredivano”, pagine, immagini, oggetti così importanti per chi li ha vissuti ma anche per ciò che raccontano.

Era già un’esperienza narrativa ripercorrere tutta quella vita, tutte quelle vite, così è stato naturale a un certo punto pensare di unire tutto questo materiale, di portare il cinema dentro la mia casa, quella casa da cui si partiva per vivere e raccontare il mondo e che perciò lo conteneva, il mondo.

Giuseppe Quatriglio con Cary Grant a Taormina

Giuseppe Quatriglio con Cary Grant a Taormina nel 1960, foto Fondo Giuseppe Quatriglio

Il cinema crea, trasforma, rivoluziona lo spazio e il tempo. In questo caso, a un certo punto, la casa risponde in modo “muscolare” a questa modifica. Come fosse un corpo sollecitato. O ferito.

C’è nel film una progressiva, inesorabile e inevitabile mutazione dello spazio, che mi permette di trovare dei varchi per raccontare le tante cose che affiorano, le tante storie possibili, che hanno origine o si riverberano proprio nella casa.
Non c’è mai un giorno uguale all’altro anche per la presenza di elementi esterni come i bibliotecari e le archiviste e delle mie azioni per facilitare il loro lavoro: ho aperto ogni singolo libro così come ho aperto ogni singola scheda, mi sono messa a loro servizio per riconoscere tutti i fili e aiutarli così a dipanarli. Mi è piaciuto, perché ho scoperto tante cose di mio padre e del suo lavoro. È stato veramente un viaggio individuale e contemporaneamente un vero e proprio attraversamento dell’immaginario collettivo.

Tra le mura della casa che contiene il mondo trovi l’intera storia del Novecento dal dopoguerra, non c’era un centimetro libero, era tutto occupato dalla sua storia che è la Storia di tutti, geograficamente e storicamente, ma nel suo non avere spazi vuoti è pure una casa guscio, con cui io, che l’ho lasciata a 23 anni, ristabilisco un processo d’intimità e innamoramento ma anche di equilibrio nuovo perché il cinema la trasfigura, e quindi, questo cambiamento non è che un passaggio necessario al distacco. E la casa sì, mi piace pensare che abbia reagito a tutto questo e in qualche modo abbia voluto aprire a se stessa e a noi una nuova prospettiva su di sé e sulle storie che contiene.

Un po’ quello che prova a fare suo padre in quelle immagini di 14 anni fa. Darle una chiave per entrare nella casa monade, così la definisce nel film, senza condizionarla. Mostrarle i cassetti segreti perché lei li aprisse al momento giusto?

Quando l’ho filmato nel 2010 avevo la coscienza che stavo raccogliendo una testimonianza importante di lui e al contempo che non avrei potuto fare un film sull’immediato con lui, su di lui. E non sapevo nemmeno se un giorno l’avrei fatto. Però lui ha capito che avevo bisogno di scoprirlo e raccontarlo e mi ha dato le chiavi di ingresso attraverso quelle riprese, lasciandomi però in fondo scoprire da sola tutto. Mi ha lasciato una mappa.

Se uno volesse evocare un filo rosso nel suo cinema, sicuramente è la memoria. Però qui è la base di tutto. Cos’è per lei la memoria?

Penso che questo sia un film sul presente, perché quello che troviamo, quello che leggiamo, guardiamo e ascoltiamo portano a una ridefinizione dello sguardo su chi siamo oggi noi, non solo su cosa significa nell’oggi essere una persona che rivede la propria stessa origine.

La memoria è una presa di coscienza sull’attualità, della mia condizione di figlia e regista, ma anche delle vicende storiche raccontate, degli uomini di scienza e di pensiero che si affacciano nel racconto. Il ricordo non è che un portare alla vita qualcosa che altrimenti rimarrebbe statico. La memoria è questo, non lasciare che il passato rimanga passato. Ma sia presente, ci restituisca al e il presente. Il racconto del mondo e di guerre passate ci parla dei conflitti attuali, i blocchi di potere di un tempo si riflettono su quelli presenti, il pensiero di scrittori e poeti, che ora mancano nel modo che avevano di intervenire sulla realtà allora, parlano a ciò che accade qui e oggi. Con immagini e parole che allora avevano un peso specifico enorme e che ora invece stanno perdendo di valore.

E riportarle al centro di tutto è anche un atto politico. L’arte può e a volte deve essere un gesto violento nei confronti della realtà, ci si deve prendere la responsabilità di trasfigurarla. Poi a volte l’artista, come faccio anche io in quest’intervista, prova a spiegare una cosa che non va spiegata.

Ci provo anche io. Mi viene in mente una canzone dei Pinguini Tattici Nucleari, Scatole, in cui un figlio artista cerca di porre tra sé e il padre che costruisce case una distanza. Per scoprire che entrambi in fondo fanno “scatole dove la gente si rifugia, quando fuori piove”.

Capisco cosa intendi, e credo che ne Il cassetto segreto vi sia una riflessione sul potere delle immagini fondata sul ruolo che gli artisti hanno nei confronti della realtà, su come gli esseri umani cercano tutto il tempo di testimoniare il presente.
Facciamo un passo indietro, mio padre facendo le fotografie, testimoniava il suo tempo e testimoniando il suo tempo in qualche modo fissava il tempo che se ne andava.

Io cosa faccio con questo film? Dentro la mia casa filmo per fissare un tempo che sta andando via. Però quello che vale per me non è il tempo cronologico in cui io sto lasciando la mia casa, inteso come un prima, un durante e un dopo; quello che vale per me è il momento che filmo, l’unico possibile che io stessa mi sono concessa e che la vita mi ha concesso per filmare questo luogo. Tutto converge, come dico all’inizio del film, in una sorta di tempo debito in cui le cose accadono perché sono spinte, da qualcosa, da una forza, da una necessità che agisce sulla nostra volontà.

Da critico ammetto che ora che “conosco” suo padre Giuseppe Quatriglio, capisco da dove viene la sua violenta, incredibile capacità di cambiare, in alcuni casi inventare linguaggi cinematografici diversi per ogni film che ha fatto.

Da sempre non ho mai fatto un’opera uguale all’altra, non ho mai ripetuto lo stesso schema, non ho mai fatto film clone, e sono consapevole del fatto che i miei film hanno tutti quanti una loro specificità. Non so dire quanto questo assomigli a quello che mio padre faceva col giornalismo, ma di sicuro rintraccio in me la sua capacità di ascolto, di relazione, di sintesi e di riscrittura, quindi di una rielaborazione del dato di realtà sempre diversa a seconda di che cosa, chi raccontare. Lui ha avuto a che fare con Churchill come con Visconti, senza mai perdere, fino a 94 anni, la curiosità, gliel’ho sempre letto negli occhi quello stupore persino infantile e ingenuo verso la scoperta. Ed è ciò che io onestamente vivo da sempre e non voglio perdere. E anzi, non parliamone più, perché parlare di quello stupore, esserne consapevoli, è già come dissiparlo.

Il Cassetto Segreto regia Costanza Quatriglio

Giuseppe Quatriglio a Berlino nel 1963, foto Fondo Giuseppe Quatriglio

Che effetto le fa aprire il cassetto segreto a tutti?

Ovvio che sento la felicità di portarlo alla Berlinale, di metterlo alla prova di un pubblico internazionale. Allo stesso tempo c’è il pudore di chi non si era mai messa così al centro del racconto – e si vede! Nel film a un certo punto cerco di sbugiardare le regole della messa in scena –, di chi non aveva mai raccontato qualcosa di così prossimo a sé. Faccio entrare tutti nella mia vita, nella mia casa, nei miei affetti. Consapevole che ciascuno può riconoscere qualcosa che lo riguardi o che lo riguarderà nel profondo.

Dopo averlo visto mi rendo conto che a chi volesse affrontare Costanza Quatriglio regista per la prima volta consiglierei di affrontare Il cassetto segreto come primo film della “retrospettiva”. O come ultimo.

Credo lei abbia ragione e credo che questo sia il film del dopo, cioè da questo lungometraggio in poi si riparte. Ho tanti progetti importanti che voglio realizzare, a cui tengo, progetti anche non miei, che non nascono da me, ma che sono stupendi, che faccio con grande entusiasmo.

Sento che posso e voglio portare nei prossimi film la stessa libertà e creatività, la creatività libera, la libertà creativa de Il cassetto segreto. E la dimensione del gioco che vi ho trovato felicemente e inaspettatamente non la voglio lasciar andare. Qui sono tornata bambina, tra gli oggetti della mia casa, con la curiosità infantile che avevo nel toccarli, scoprirli, usarli.

Tra le tante foto di Giuseppe Quatriglio che vediamo nel film mi ha colpito una in particolare. Quella fatta a Enrico Fermi. Sfocata, un mezzo sorriso. Un’illuminazione: a volte l’immagine sbagliata è quella giusta, persino nel cinema di una delle cineaste più eleganti?

Questo film è realizzato attraverso vari formati, supporti e momenti, e quindi il linguaggio attraversa questi supporti diversi, ogni supporto porta con sé la propria necessità, ogni volta è tutto giusto, non c’è una norma a cui attingere, solo il tempo debito per quell’immagine percepita in un tempo necessario.