Miss Fallaci Takes America. La serie targata Paramount+ Original e Minerva Pictures con Miriam Leone a interpretare Oriana Fallaci aveva originariamente questo titolo di lavorazione. Eloquente nel suo voler raccontare la piccola grande storia di una giovane donna che voleva rompere il soffitto di cristallo di uno dei mondi più maschilisti, allora come ora: il giornalismo.
Nelle otto puntate scopriremo un’eroina fragile, un’anima avventurosa e sorprendentemente delicata, a cui l’attrice, che già ne aveva vestito i panni in A cup of coffee with Marilyn di Alessandra Gonella (Nastro d’Argento al miglior cortometraggio nel 2020 e ideatrice della serie), dà una profondità d’interpretazione nata dallo studio delle sue parole, delle lettere e degli oggetti che ha scovato nel suo archivio e dal suo talento, messo alla prova dalla mancanza di immagini risalenti a quel periodo della carriera di Oriana Fallaci.
Quella che potrebbe essere anche solo la prima stagione dedicata alla grande e discussa autrice si concentra sul triennio tra il 1956 e il 1959 in cui Oriana si forma come donna e come professionista tra l’Italia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Partendo da un aneddoto straordinario: il tentativo, vano, di intervistare la diva delle dive, Marilyn Monroe, e il successivo reportage d’autore con cui sul periodico L’Europeo racconta la sua epopea rocambolesca e avvincente.
Com’è avvenuto il primo incontro di Miriam Leone con Oriana Fallaci?
Il mio primo incontro con Oriana Fallaci risale al periodo delle elementari. Davanti alla libreria della mamma di una compagna di scuola. A un certo punto rapisce la mia attenzione uno scaffale con tanti libri. Tutti messi in fila per autore. Leggo di seguito, ad alta voce: Oriana Fallaci, Oriana Fallaci, Fallaci. Ho pensato: “Ma tu guarda questa donna, quanti libri ha scritto”. E già questo mi diede una piccola speranza da bambina, perché ero un’accanita lettrice e trovavo meraviglioso che una “femmina” avesse la sua firma su tanti volumi.
Alle scuole medie credo di aver letto per la prima volta Lettera a un bambino mai nato. E poi c’è stato l’incontro vero, quando ho potuto, diciamo così, toccare un po’ i suoi oggetti. Tutto grazie a Edoardo Perazzi, suo nipote, e alla moglie Alessandra, che mi hanno aperto la loro casa. Mi hanno messo davanti al guardaroba di Oriana, al suo archivio privato, le lettere, i suoi quaderni, i suoi documenti. Ho potuto avere tra le mani quel suo passaporto pieno zeppo di timbri. Ho ancora impresso nella mente quel momento emozionante, ero rapita dalla dimostrazione tangibile di quanto fosse stata straordinaria la sua vita. Risale, questo incontro, alla preparazione del cortometraggio da cui è tratta la serie, ed è stato incredibile.
Entrare nella sua vita, invadere i suoi ricordi, che emozione è stata?
Edoardo ha conservato la sua memoria meticolosamente, una parte della sua casa è rimasta completamente dedicata a Oriana. È una casa bellissima, di un gusto fantastico, piena di piccole cose, a suo modo gozzaniana e mi piace tantissimo tornarci appena posso, lo confesso. Lui ti apre questi armadi e con naturalezza ti descrive quello che c’è. “Questo è l’elmetto che aveva in Vietnam” e poi passa oltre, come se fosse normale. Quel contatto fisico, materiale, è stato fondamentale. In questi quattro anni quelle scoperte hanno preso spazio dentro di me e nel frattempo anche in uno scaffale della mia libreria aumentavano i libri con quel nome in copertina.
Questi quattro anni sono serviti in qualche modo per farsi trovare pronta a un’impresa titanica come quella d’interpretare Oriana?
No. In questi quattro anni ho fatto tantissime cose, ho viaggiato nel tempo, sono stata in un fumetto negli anni ’60, sono stata nel 1800 e in storie ambientate nel presente, in un centro di riabilitazione psichiatrico: tutti personaggi che mi hanno consentito di viaggiare dentro i meandri dell’animo umano. Il problema è che quando interpreto un personaggio, prende residenza dentro di me, c’è solo lui.
E io nel frattempo giravo I leoni di Sicilia (serie tv ambientata nel XIX secolo diretta da Paolo Genovese e che andrà su Disney +), provavo le parrucche di Oriana nelle pause dei set, la domenica, che arrivavano da Rocchetti, da Roma. Più passano i giorni, più un ruolo dentro me si siede, si allarga, prende spazio. A volte me ne rendo conto da come prendo una forchetta o da come dico una parola, e spesso è mio marito che me lo fa notare, anche un po’ basito. (lo dice accentuando l’accento toscano di Oriana, e non se ne accorge – ndr).
E dove ha trovato spazio per Oriana, visto che c’era già la signora Florio che risiedeva dentro Miriam Leone?
Sono sincera, è stato difficile far spazio a un personaggio così complesso come Oriana, girando un’altra produzione e non togliendo spazio a quel progetto. Alla fine ho avuto solamente le due settimane di Natale per preparare un ruolo così complesso per otto episodi. In cui non ho dormito. Ho cercato di assorbire il più possibile di lei, ero alla continua ricerca di qualcosa. Sai, quando fai un personaggio realmente esistito e che comunque è un po’ nella memoria e nell’immaginario collettivi, sei sempre lì, su un crinale pericoloso, cammini su un filo.
A un certo punto ho capito, anzi abbiamo capito qual era il punto cruciale: non volevamo imitare Oriana. Volevo interpretarla. Miss Fallaci racconta gli anni che praticamente nessuno conosce, gli anni in cui lei diventa Oriana, è un Becoming Oriana Fallaci. Lei è una giovane ragazza, una giovane giornalista fiorentina che con la sua intelligenza fuori dal comune, con la sua voglia di esplorare, di imparare, di conoscere, con questo coraggio che è la virtù per lei massima e che lei pretenderà per tutta la vita da tutti – nelle amicizie e soprattutto in amore – sta per mangiarsi il mondo. Una donna sempre alla ricerca di questo eroe senza macchia e senza paura che ovviamente non poteva esistere.
Forse perché solo lei lo era. Lei che da sola va a New York per cercare la diva più diva di sempre, Marilyn Monroe, è non riesce a trovarla. Ehi, non è spoiler questo, accade nel primo episodio.
Sarà un fallimento di grande successo. Non riesce a trovarla. Da questo mancato incontro e da questa mancata intervista lei trae un racconto bellissimo, un articolo che L’Europeo pubblica entusiasta e che avrà grande risonanza. In un mondo in cui non esistono social, web e affini diventa famosa anche in America, arriva sulle prime pagine dei giornali newyorkesi quando per trovare la diva si nasconde in un teatro con un’amica e non si accorge che il custode le chiude dentro. Passeranno la notte lì. Già allora lasciava dietro di sé una scia luminosissima, l’Oriana coraggiosa e decisa: sta lì da sola a 26 anni. Te la immagini una donna della provincia di Firenze a New York, che si fa strada tra la Grande Mela e Hollywood, senza saper parlare inglese? Intendo, te la immagini negli anni ’50?
Raccontarla così giovane, quando la sua faccia non si vedeva in tv o sulle copertine dei libri, è stato rassicurante rispetto alla difficoltà dell’impresa? Almeno a livello visivo non c’era un’icona da avvicinare, da restituire esteticamente.
Eh, io non posso mica spiegarti tutto quello che succederà nella nostra serie, però quando la vedrai capirai che in alcuni momenti ci siamo presi pure quel rischio. In questa serie indosso quattro diverse parrucche. Va pure detto che lei con i capelli, da giovane, era più irrequieta di me, che pure ho cambiato tagli e colore non so quante volte. Nella scena di oggi, per esempio (entra nell’ufficio dell’agente di Marilyn e assiste alla telefonata alla diva con cui lui prova a convincerla a incontrare Oriana Fallaci), ho quella frangetta un po’ dritta di quei tempi, altro che capello iconico lunghissimo e con la riga al centro.
Se guardi le foto di quell’epoca, scopri una donna che sta cercando se stessa, una ragazza curiosa che si mette in gioco e che assorbe tanto dalle culture che incontra. Lei è una provinciale, una fiorentina senza fronzoli, senza grilli per la testa e incontra una New York che sta letteralmente esplodendo, in cui nascono mode e ci sono tanti stimoli. E lei entra in quel mondo in cui sceglie per sé look che poi abbandonerà. La ritroviamo, più decisa ma anche in quel caso condizionata dal mondo circostante, con occhialoni e gilet negli anni 70. Allo stesso tempo, leggendola e studiandola, ti rendi contro che ha attraversato tutte le epoche rimanendo sempre se stessa.
E allora cos’hanno di speciale questi tre anni?
Semplice, è il periodo in cui Oriana si perde. Si perde perché è sola, si perde perché ha fame d’amore. Noi, mi vergogno un po’ a dirlo, è come se ne avessimo violato la sua intimità, abbiamo preso dall’archivio privato il suo carteggio con il suo primo grande amore, Alfredo Pieroni. Quando mi sono messa a leggere le loro lettere per la prima volta, ricordo che le affrontai con enorme pudore e da allora mi sono ripromessa che avrei rispettato profondamente quel sentimento. Anche nei dialoghi cerco di rispettare il più possibile la sua anima.
Una cosa sorprendente scoperta in questo percorso?
Il libro I sette peccati di Hollywood (che insieme a Penelope va alla guerra costituisce l’ispirazione della serie). Abbiamo questa giovane giornalista, questa ragazza che arriva da sola a Los Angeles, non conosce nessuno. Si imbuca a una festa, il grande party dei coniugi Cotton. Chi conosce a questa festa? Orson Welles. Chi le scrive la prefazione a questo libro? Orson Welles. Questa era lei, capisci di cosa stiamo parlando?
C’è una cosa che si dice in giro su Miriam Leone. Che è una secchiona.
Ma veramente? Mi sorprende, sono sincera, non credo di esserlo. Mi piace prepararmi per un ruolo, questo sì, sogno di avere sei mesi o un anno per tirar su un personaggio, ma non capita mai! Per me il divertimento massimo è preparare, studiare, andare a cercare i dettagli che sono nascosti nel ruolo, nella sua caratterizzazione. Dal costume al modo di camminare, pensare dove ha abitato, chi ha incontrato, con chi parlava. Pensa poi se è pure un personaggio realmente esistito. Prima che iniziasse l’intervista mi raccontavi di quando l’hai incontrata e mi è piaciuto il tuo racconto, in qualche modo l’ho assimilato e so già che mi servirà.
Però finita la preparazione sul set non faccio più niente, mi lascio andare, cerco di usare quello che ho imparato come se ormai facesse parte di me, senza studiare ancora. Sono una perfezionista, è vero, penso di poter, anzi dover far sempre meglio. Mi diverte studiare, molto. Non sono secchiona perché sono allo stesso tempo sono una persona che si diverte. La verità è che spesso si dà a questa parola un tono dispregiativo, perché quando qualcuno si impegna un pochino in questo paese lo dobbiamo ammaccare, dà quasi fastidio che uno sia serio. A me piace leggere come mi interessa vivere. Il secchione, almeno per come viene inteso secondo il senso comune, non vive tanto, vive più sui libri, mette una distanza tra sé e il mondo. Io invece la vita proprio me la vivo, ma tanto.
Continua a tornare la cadenza toscana. Non è che per uscire da un personaggio ci vuole poi un esorcismo?
No, tranquillo, dentro di me c’è solo una parte, poi cerco di star calmina (appunto – ndr). Anche perché erano famose le sfuriate della Oriana, l’animale a cui ho sentito più paragonarla è la tigre. Eppure io ho conosciuto nei suoi ricordi, nei suoi oggetti, nei suoi scritti privati soprattutto una donna sensibile, ferita. Ci si dimentica troppo spesso che l’Oriana ha fatto la Resistenza, lei è stata proprio soldato semplice. Ha partecipato alla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo con la sua bicicletta o le sue treccine, dove nascondeva i messaggi.
Fu una bambina molto coraggiosa che diventò una donna troppo in fretta. La mia infanzia è finita durante la guerra, ripeteva spesso. “Ma soprattutto la mia capacità di perdonare”. E se noi ci pensiamo, questa donna se l’è andata sempre a cercare la guerra nella sua vita. Il suo primo libro di finzione, diciamo il suo primo romanzo, si chiama Penelope va alla guerra, Penelope che dovrebbe aspettare Ulisse a casa senza far niente, tessendo e smontando questa tela nell’attesa di un marito lontano, idealizzato, assediata da altri uomini. Cosa fa Oriana? Manda Penelope alla guerra. È un’idea fortissima quella che c’è dietro questo titolo, in cui ci dice che una donna può andare in guerra, può muoversi, non deve solo difendersi.
Rovescia ogni cliché.
Stiamo parlando degli anni ’50, gli anni in cui le pubblicità dicevano che il massimo sogno di realizzazione di una donna doveva essere una lavatrice. Ma lei aveva una mamma, Tosca, che l’ha spinta sempre a non diventare come lei, a coltivare i suoi sogni, la sua indipendenza. Tutto quello che alla Tosca era stato negato. Però la guerra le ha dato anche questo mito dell’eroe, della persona senza macchia e senza paura, ha alzato la sua asticella morale e emotiva, e all’altro, per questo, non perdonava le vie di mezzo, il non prendere posizione, il non farsi le domande fino in fondo.
Molte delle persone che lei ha intervistato spesso non si riconoscono nei suoi ritratti. Questo succede perché quando tu fai un’intervista comunque c’è un’interpretazione altrui, è successo anche a me di chiedermi quando mai avessi detto ciò che mi ritrovavo scritto davanti, attribuito a me. Ma con lei succedeva anche perché era un’attentissima studiosa dell’animo umano, faceva parlare anche e forse soprattutto i silenzi, i non detti.
Difficile far collimare la passione rabbiosa degli ultimi anni con questo personaggio alla Jane Austen.
Era una grandissima romantica che, come le grandi eroine dei melodrammi, per l’amore si distruggerà la vita. Lei era una donna che rompeva ogni schema, ai suoi tempi noi femmine non si lavorava, c’era un maschilismo all’ennesima potenza, il patriarcato massimo, purissimo, l’intellighenzia era maschile, oltre a lei c’era solo la Cederna a Milano, ma erano mosche bianche. Ci sta che facessero anche un po’ antipatia, allora non si era pronti a una donna che si prendeva quello che voleva senza aspettare che qualcuno glielo “concedesse”. In tempi i cui l’educazione che si dava alle bambine era “sta al tuo posto, non chiedere, chiudi le gambe, stai composta, non correre, non sudare, non ridere troppo forte, parla piano, sorridi”. Il servizio militare, la nostra infanzia, e dai!
E Oriana Fallaci tutto questo lo paga.
Certo, sta in guerra tutta la vita e non lo sa. Nonostante sia così realizzata nel suo lavoro, non sa gestire l’amore, l’amore la travolge e soffrirà tantissimo. Noi parleremo di un’Oriana inedita, non l’Oriana che ti aspetti o che pensi di conoscere. Anche per me prepararla è stato molto difficile, non ci sono documenti video di quegli anni, al massimo qualche foto. E io me la sono immaginata all’inizio più sperduta della donna dal piglio sicuro degli anni della maturità, in questa New York che deve averla intimorita con i suoi palazzi alti. In fondo lei veniva dal Rinascimento fiorentino, tutt’altro stile e termini di grandezza.
A proposito dell’amore, io l’ho sempre vista come una sorta di Maria Callas.
Peraltro entrambe erano amiche di Pasolini.
Erano donne che non avevano filtri, che dovevano arrivare dove volevano con questo talento immenso, fuori scala quasi.
Un talento che non consentiva loro di capire il loro valore come donne. Oriana non si rendeva conto di quanto meritasse amore, anzi pensava il contrario. Si sentiva in colpa per il successo. Molte delle lettere ad Alfredo, per esempio, hanno fiumi di parole in cui lei cerca di rassicurarlo, in cui gli dice “tu sei più bravo di me”. Lo stereotipo della donna che si sente in colpa di chi è e cosa fa. Molte secondo me si riconosceranno in questo amore tossico, quello che ti fa sparire l’appetito, il valore che hai di te, in cui tu ti sminuisci per alimentare l’ego di questi narcisisti patologici, in cui ti annienti. Si incontrano questi uomini narcisi che si agganciano alla tua fame d’amore e ti vampirizzano.
Questa fame d’amore alla Oriana se la divora e non te l’aspetti da una donna coraggiosa e assertiva come lei. Questo ci fa capire quanto l’apparenza spesso sia una corazza che nasconde una grande fragilità, quindi che ci può essere dentro la stessa persona una tigre e un uccellino spaurito. E noi ce lo dimentichiamo, soprattutto quando si parla di donne. Possiamo essere tante cose e ed è giusto poterle raccontare, perché altrimenti da noi ci si aspetta sempre la stessa cosa. Oriana può essere forte e fragile, così come noi attori, pensa, possiamo invecchiare, cambiare, non rimanere incastrati sempre nello stesso personaggio.
Inquietudine e perfezionismo. Mi sembra il ritratto di Miriam Leone.
Inquieta, perché? Perché cerco sempre personaggi nuovi, generi di film o serie diversi? Io sono molto curiosa e credo che sia una virtù che sa farti rimanere giovane di mente, indole e visione. Sono curiosa soprattutto dell’umanità: mi fa arrabbiare, spesso mi delude, però mi interessa e mi interessa capire cosa porta le persone a impazzire, ad agire, ad affrontare imprese folli o a rimanere invece annichiliti di fronte alla cosa giusta da fare. Mi interessa raccontare storie e non annoiarmi nel farlo.
Perché se mi annoio, semplicemente non ce la faccio. Non riesco a fare un lavoro di routine. Mi piace esplorare personaggi diversi, mi piace esplorare figure femminili interessanti, che non siano di supporto, che non siano la cosa di, la mamma di, la moglie di, la sorella di. Una donna non è funzionale alla narrazione e ai personaggi maschili, è anche una psicologia bella complessa. So che può sembrare incredibile ma la donna è un essere umano. Proprio come l’uomo.
Questo si chiama femminismo. C’è anche una volontà di scelta politica oltre che artistica in questo percorso?
Sicuramente c’è attivismo nei ruoli che scelgo, cioè il mio attivismo è nei fatti, è nel rappresentare delle donne che possano ispirare altri uomini e altre donne. Questo personaggio può ispirare altre piccole ribelli? Lo faccio. Può far sì che altri riflettano su virtù dimenticate? Idem. Sai, c’è una cosa molto bella che Oriana disse su mito della mela e di Eva. “Quel giorno – afferma – non nacque il peccato originale. Il giorno che Eva rubò la mela nacque una bellissima virtù, che è la disobbedienza”. Bisogna conoscerle le regole, rispettarle, ma sapere anche quando possiamo e dobbiamo romperle. La disobbedienza consapevole è una bella virtù che alcuni personaggi ti possono ispirare.
Quando ho interpretato il ruolo di Oriana la prima volta, nel cortometraggio, e venni a conoscenza di questo suo buttarsi via in amore, cosa che non sapevo e che non potevo immaginare, le disobbedii. Mi dissi “No, non voglio che accada anche a me”, e le fui molto grata in quel periodo perché mi rese più forte leggere di questo Sturm und Drang, di queste passioni totalizzanti e distruttive, di questi uomini che non ti aiutano a volare e che anzi ti odiano perché riesci a farlo comunque, pur sentendoti in colpa. Non l’ho mai più voluto, per me, ed è merito di quel periodo.
Uno degli episodi ha la firma Miriam Leone. Si cambia lavoro?
Sì, cerco sempre di partecipare attivamente alla scrittura. Timidamente lo faccio da tanti anni, però c’è un imbarazzo, un dire no, forse non sono all’altezza, non firmo, però posso cambiare, mettere questa cosa che è sempre dietro l’angolo. Sento che devo sempre fare la gavetta, ci deve sempre essere nella mia vita un periodo in cui lavoro a testa bassa per capire se sono in grado di farlo. Poi quando mi convinco, mi butto. E così questa volta ho deciso di firmare anche io, di non avere paura. Mi piace scrivere, raccontare storie, sia attraverso la mia pelle e il mio corpo, che è quello che fa un attore, sia appunto metterle su un foglio perché vengano realizzate. Quel tipo di creatività ce l’ho sempre avuta, fin da quando inventavo complicati scherzi da fare agli amici.
Il successo non è pericoloso in un percorso di questo tipo? Non rischia di distrarre?
Quello che tu chiami successo per me è il sogno di fare ciò che amo. Il successo non mi ha investito, cambiato, travolto. Il mio lavoro è una parte della mia vita molto importante, ma ho anche una vita privata, realizzata, bella che riesco a proteggere. Sono fortunata perché è una parte della mia vita che amo, ma non è tutta, ecco perché non può distrarmi.
In questa serie molti dei dialoghi sono in inglese. Laura Morante dice che quando reciti in una lingua straniera reciti meglio perché diventi ancora più essenziale.
Sicuramente l’inglese è una lingua più essenziale dell’italiano, è un po’ più semplice però io non ho visto il risultato, quindi come posso saperlo? Intendiamoci, sono felice di essere qui, a parlare di questo lavoro per la prima volta, di fronte a The Hollywood Reporter. Ma sono ancora a metà della lavorazione, non so proprio se ho fatto un buon lavoro, se ho fatto meglio in inglese che in italiano. Ammesso che faccia bene in qualche lingua. Insomma, è interessante non avere un bagaglio linguistico pesante. No, perché magari ho una memoria di parole in italiano dai libri che ho letto, dai programmi che ho visto o dai film, e una invece un’altra per quelli in inglese. Sì, insomma, sono più libera.
A proposito di Marilyn, in fondo l’ha sfiorata anche lei nel film con Stefano Accorsi ora su Netflix, Marilyn ha gli occhi neri. Con lui che ricordo ha di 1992, che rappresentò un po’ un salto di qualità?
Pensa che il camper in cui stiamo facendo l’intervista è lo stesso in cui stavo allora, me l’ha detto Nicola, l’autista. Sono passati dieci anni da quando noi abbiamo girato la prima stagione e ho imparato tantissimo su quel set, ma veramente tanto. La lunga serialità chiaramente ti dà la possibilità di esplorare un personaggio più a lungo, di cercare delle sfumature, di avere uno spettro più ampio di espressività e di approfondimento, un arco narrativo.
E poi ho lavorato con attori bravissimi: c’era Stefano Accorsi, c’era Guido Caprino e io stavo con loro ogni giorno in scena, cercando di imparare tutto, dalla loro esperienza e dal loro talento. Tutto bellissimo, ma non facile: mi sono dovuta anche lasciare andare fisicamente a donarmi a un personaggio, donare tanto nell’interpretare un ruolo particolare e quindi è stato uno scoglio talmente alto da cui mi sono lanciata che è stato come quando buttano i bambini a nuotare. Alla fine per sopravvivere, imparano.
Questa serie andrà in onda in 45 paesi. Potrebbe lanciarla a livello mondiale? Hollywood è un pensiero, un sogno o una meta lontana?
Per ora mi accontento di leggere I sette peccati di Hollywood. E poi forse è già arrivata Hollywood se raccontiamo una storia anche americana, però attraverso un personaggio italiano, partendo da una produzione anche nostrana. Quindi forse è questo il futuro, saper parlare al mondo anche da altre latitudini, anche dal tuo paese. Detto questo, son cose che succedono e ci pensi quando ti ci trovi davanti. Ma mi piacerebbe, certo.
Non si va più in America, l’America viene da te.
Nel vero senso della parola. Siamo andati negli Usa a girare, ma molte delle location le abbiamo ricostruite qui, soprattutto a Roma. E gli attori americani e di tanti altri paesi vengono da noi. E noi diventiamo delle ottime guide turistiche, ci chiedono dove andare a mangiare la sera la pasta cacio e pepe, un attimo fa mi hanno chiesto dove possono andare a bere del vino rosso. Noi li accompagniamo, facciamo questo sacrificio (sorride) e ci tocca fare questi tour enogastronomici in giro, lo facciamo per il nostro paese. Ed è bellissimo: davanti a un bicchiere, ci scambiamo anche dei modi di pensare, di intendere l’acting, il nostro lavoro, e questo ci arricchisce tutti, tanto.
Però da siciliana non doveva mancare in The White Lotus.
Eh. Non ricordo se ero in vacanza o ero già Eva Kant.
Cosa fa fermare di fronte a uno schermo Miriam Leone? Quale film, quale serie tv?
Tutti i vari Ginger Rogers, tutti i film con Katharine Hepburn o di Orson Welles. Tutto quello che è cinema anni ’50. Io ci sono cresciuta, cioè è stato il mio asilo: spesso mi svegliavo e andavo nel lettone e dicevo “Papà, per favore, posso non andare all’asilo perché oggi fanno L’amore è una cosa meravigliosa?”. Mio padre ogni volta era incredulo. E mi lasciava a casa a vedere i vecchi film di Hollywood. Sulle serie, non c’è gara: Boris. Un capolavoro.
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